Tragedia, melodramma, gangster movie e lussureggiante analisi antropologica dei legami famigliari e di come condizionino il destino dei singoli: ‘Il padrino’ di Francis Ford Coppola è tutto questo nella magia di un amalgama che 50 anni dopo cattura ancora il bulimico spettatore a caccia di novità sulle tante piattaforme disponibili.
Impossibile, come sempre, identificare la ricetta di un successo di critica (l’American Film Institute lo ha portato al secondo posto della classifica dei 100 migliori film di sempre, dietro solo al leggendario Quarto potere di Orson Welles) e di pubblico (ha incassato nel mondo oltre un miliardo di dollari e in Italia è rimasto il maggior incasso di sempre fino all’arrivo di Avatar nel 2009) di tale portata.
Soprattutto considerando le premesse.
Mario Puzo era l’autore del bestseller che però, contro la volontà del suo agente, vendette i diritti per 80mila dollari perché era pieno di debiti di gioco; Coppola, che la Paramount – a sua volta in crisi – non voleva, veniva da uno dei suoi vari default commerciali e voleva un film che lo risollevasse; Marlon Brando non era ben visto e fu imposto proprio da Coppola; Al Pacino era una terza scelta perché considerato semisconosciuto (aveva interpretato solo Panico a Needle Park ma nel personaggio dell’eroinomane Coppola ci aveva visto, giustamente, parecchio talento); Cosa Nostra cercò di mettere i bastoni tra le ruote alla realizzazione del film fino ad ottenere che la parola mafia, appunto, non venisse mai pronunciata (e così fu); Frank Sinatra cercò di fare pressioni perché riteneva (a buon diritto) che il personaggio di Johnny Fontaine, il cantante che deve ottenere un contratto e ci riesce grazie all’aiuto del padrino, fosse ispirato a lui, i cui legami con il crimine organizzato, mai provati, erano però molto chiacchierati.
Il film ottenne 10 nomination e tre Oscar, con doppia coda polemica: Pacino riteneva di meritare lui il premio per l’attore protagonista visto che era in scena più di tutti, e Brando, che invece lo vinse, mandò a ritirarlo una nativa americana, Sacheen Littlefeather, che lesse una dichiarazione dell’attore contro i maltrattamenti degli indiani d’America nell’industria cinematografica.
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