di Francesca Bruciano
La sua poesia è “come un demone che si racconta: per questo bisogna avere un orecchio molto attento per poter scrivere poesie”. “Autobiografie di demoni” edito da Phoebus Edizioni è la prima silloge poetica di Anacleto Loffredo. “Un vero e proprio Manifesto anti futurista”, così lo definisce lo storico napoletano, che ha studiato Storia d’Europa e Letteratura italiana alla Facoltà “Federico II” di Napoli. E’ inoltre un appassionato della cultura e della politica tedesca.
Una tessitura sapiente e raffinata della storia dell’uomo globale e dell’essere umano affiora dai suoi componimenti schizzati da plurime memorie. Il cuore della raccolta è legato alla memoria, al passato, ai grandi avvenimenti che hanno attraversato e segnato il Novecento. E soprattutto alla memoria del “male” poiché il primo scorcio del Novecento, e non solo, è stato particolarmente nefasto e distruttivo. Soprattutto guardando a quella Italia del primo ventennio del Novecento – sottolinea Loffredo – “ è stata l’Italia più moderna del Secolo, ma mancante di un’analisi sull’età giolittiana sotto il profilo letterario. Invero Emilio Gentile ha tracciato un percorso di quell’età molto importante sia dal punto di vista saggistico che storico. Un’età troppo spesso dimenticata ma che dovrebbe essere riscoperta per comprendere la valenza dell’Europa.
Un’età in cui vi furono giovani ventenni e trentenni, come Papini, Prezzolini, Soffici, che fondarono riviste come” Lacerba”, “La Voce” ed ebbero poi grandi collaboratori tra cui studiosi, giornalisti, scrittori e poeti come Ungaretti. Tutti, dotati di uno spirito libero, parteciparono a quella forza culturale che da Firenze, Roma, Bologna, Milano e anche da Napoli, prese piede in quegli anni. Quello è stato il periodo e il decennio più europeo d’Italia, e siccome l’Europa è tornata a vivere, da pochi anni a questa parte, degli anni bui, è giusto che qualcuno ritorni a capirne il valore”.
Stesse riflessioni riguardano Napoli in particolare, capitale europea di primissimo ordine fino alla seconda metà dell’Ottocento. Loffredo analizza le possibilità attuali che la città, dotata di bellezze artistiche, paesaggistiche e storiche, possa rinascere a nuovo splendore: “ Napoli – sottolinea l’autore – deve ritornare a quello spirito settecentesco, illuministico, che la fece imporre come una delle grandi capitali della cultura mondiale, europea, insieme a Parigi, Milano. In questo i grandi intellettuali napoletani facevano la differenza, come si sa, scrivendo e organizzando nel 1799 la Rivoluzione Napoletana. Tra i tanti c’era una donna Eleonora Pimentel De Fonseca, e questo fa capire quanto la realtà culturale napoletana fosse avanti rispetto a tante, sia italiane che internazionali, e fosse in quel periodo una seconda Parigi. A Napoli la Rivoluzione Francese aveva dei proseliti dotati di grande forza culturale e di preparazione politica che cercarono di fare la differenza”.
E come si può dargli torto? Del resto il sovvertimento dei ruoli, da intellettuale a politico, che ha segnato il nuovo Secolo, fa oggi la differenza disorientando le menti. A mio avviso, è proprio questo che marca sempre più il divario tra il popolo e la classe dirigente. I più deboli, gli ultimi, non si sentono ascoltati , nè rappresentati da chi dovrebbe, in qualche modo, essere attento alla realtà quotidiana, ai bisogni dei cittadini e alla salvaguardia dei Beni Comuni. I politici parlano ad un popolo che non ha più un’identità. E un popolo che non ha radici nel passato, difficilmente potrà avere un futuro.
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