L’incipit del romanzo è da libro giallo: Francesca Gerla scaraventa il lettore in mezzo all’azione, senza spiegazioni, senza descrizioni, coinvolgendolo negli avvenimenti e facendolo immediatamente sentire partecipe di quello che sta accadendo.
Continuando la lettura, però, ci si rende conto che quello che si ha tra le mani non è un romanzo giallo: lo scrittore non semina indizi, sfidando il lettore a risolvere un enigma; non innesca meccanismi su cui svolgere indagini, non genera sospetti…
Francesca non strizza l’occhio al lettore, non lo blandisce in cerca di consenso: va avanti per una strada difficile, aspra, a volte disturbante e, attraverso una serie continua di flash back comincia a costruire due figure, due esistenze dolenti, entrambe nate nel dolore, un dolore che si porteranno dietro per tutta la vita e che diventerà l’essenza stessa delle loro giornate.
“La gabbia” del titolo è la vita stessa che li ha stretti in una morsa asfissiante.
Due personaggi, un uomo e una ragazza, entrambi in cerca di espiazione, a cui tendono in maniera molto diversa.
Enea, un ingegnere, si è autorecluso in un garage di un condominio. È una prigione volontaria, un esilio permanente da cui sbuca fuori per portare avanti una “non vita”, una sorta di perverso voyeurismo che lo induce a introdursi furtivamente nelle case degli altri condomini per “rubare “ frammenti delle loro vite, di quelle vite che lui non avrà mai.
Ilaria è una ragazza bellissima, un’universitaria che ha ereditato l’attico nel medesimo fabbricato, che vive a sua volta una vita disperata, autolesionista e priva di futuro.
Due esistenze vissute alle estremità opposte di un palazzo, in teoria tra loro lontanissime ma in realtà collidenti.
Se prendiamo in considerazione la narrativa con cui Francesca Gerla costruisce la sua opera, ci accorgiamo che il suo nocciolo operativo consiste nell’aggiunta costante, pagina dopo pagina, di nuovi elementi alla struttura dei personaggi, avendo cura che quanto viene aggiunto possa assumere una funzione preparatoria di ciò che accadrà in seguito.
La sua prosa gestisce i percorsi dei personaggi nel tempo, operando quindi con grande naturalezza utilizzando dinamiche diacroniche, in quanto collegate ai percorsi temporali con cui i personaggi giungono all’attenzione della nostra mente.
La narrazione si giova di uno stile di scrittura basato su frasi brevi, con largo uso di termini e costruzioni gergali, tutto imperniato in sequenze dialogo-azione, dialogo-azione.
Il punto di vista cambia continuamente con il mutare della voce narrante, consentendo al lettore di aver una visione al tempo stesso grandangolare e prismatica della storia.
Grazie all’uso di una tecnica – questa sì mutuata dalla scrittura gialla – lo “show, don’t tell”, la scrittrice permette al lettore di sentirsi sempre presente sulla scena, vivendo a fianco dei protagonisti.
Uno stile che a tratti ricorda James Ellroy, una prosa densa, parole pesanti che non graffiano la pelle ma si depositano direttamente sull’anima.