
Ho incontrato in terapia donne e uomini inclini a dare una importanza centrale al principio del “sacrificare” se stessi in nome della famiglia, dei figli, di legami preesistenti, del lavoro, al fine di mantenere un concetto positivo di se stessi, per non esporsi a critiche e giudizi, alla presa di distanza di familiari o amici, al carico di un sovvertimento di consuetudini, anche di fronte a un coinvolgimento amoroso pieno e sovversivo con un nuovo partner.
Sono persone portare ingenuamente a credere che prima o poi in ragione di questo sacrificio, arrivi qualcosa in cambio: apprezzamento, riconoscimento, un sacrificio dell’altro di pari portata, un plauso universale. Non pensano che sacrificandosi, perdono parti importanti di loro stessi, si snaturano. Non si chiedono inoltre se è possibile amare veramente qualcuno se noi in prima persona non ci siamo. Amare significa donare noi stessi profondamente, ma se ci siamo persi nel sacrificio, se confondiamo doverismo con desiderio, se sopprimiamo la sana aggressività sotto i sensi di colpa e la vergogna di esporci allo sguardo altrui, cosa possiamo dare in definitiva all’altro?
In questi casi, si finisce per andare avanti per fraintendimenti e introietti, senza riflettere sulla differenza tra il sacrificarsi e il dedicarsi. Nell’ambito delle relazioni amorose queste due posizioni psicologiche spesso si confondono e si perpetuano. È chiaro che una certa dose di rinuncia a se stessi, di morte del sè, è necessaria in amore, in un’ottica di reciprocità e senza arrivare a tradire se stessi in nome dell’altro e della nascita del “noi”, ma non fare i conti con il proprio stile di attaccamento, con l’obbligo (in genere antico) di farsi carico dell’altro, col vivere sotto sforzo, cosa che nulla ha a che fare con l’amare con spontaneità e cura, rischia di far ritrovare il soggetto in questione, anche di fronte a un eventuale cambio di partner, di lì a poco, negli stessi schemi relazionali precedenti.
Paradossalmente, l’amore sacrificale potrebbe nascondere egoismo, pretesa, un sottile ricatto, e avere davvero poco a che fare col donarsi al partner. Potrebbe essere una sorta di test, di gioco sadico, per mettere alla prova se stessi e l’altro.
Quando si sacrificano il proprio tempo o le proprie ambizioni, per esempio per passare più ore con i figli o gliele si sottrae con la convinzione di dare loro una vita più agiata, oppure quando si rinuncia a qualcosa per accudire un genitore malato, se il gesto è oblativo, allora sarà pieno di riflessione, porterà arricchimento, e sarà privo di ripensamenti e rimorsi. Altrimenti potrebbe essere il pretesto per non fare i conti con le proprie paure di fallire in alcuni ambiti della vita, o di non sentirsi abbastanza, o all’altezza di permettersi altro. Molto dipende dalla storia personale di ognuno. Nel sacrificio potrebbero nascondersi le mancate domande: “io cosa desidero davvero? e sono in grado di accedere al desiderio, di riconoscerlo in me e nell’altro?”
In terapia, interrogativi quali “resto con mia moglie e i miei figli, assolvo ai miei obblighi, oppure scelgo la donna di cui sono innamorato, l’unica per la quale ho mai provato certi sentimenti?” sono spesso oziose e difensive. Il problema a volte non è con chi stare, ma come starci.
di Giuseppe Iaculo.