La sindrome dello struzzo e la costruzione del futuro

0
341
La sindrome dello struzzo e la costruzione del futuro

Il Censis, nel 57esimo rapporto sulla situazione sociale dell’Italia, parla di un Paese in declino, di cittadini e governanti in un diffuso stato di sonnambulismo: una condizione che impedisce di comprendere i fenomeni in atto e di confrontarsi su come affrontare in modo condiviso dinamiche strutturali e di lungo periodo.

Gli italiani si percepiscono fragili, impotenti, delusi, rassegnati.

Ne consegue un’inerte e dilagante individualismo: “singole traiettorie individuali e personali” – come dice il sociologo Revelli -, segnate da “ipertrofia emotiva”, che rivelano l’assenza di un orizzonte collettivo e di un pensiero di lungo periodo, che non sia solo quello economico.

E’ la c.d. “sindrome dello struzzo”: pur intravedendo con progressiva chiarezza i possibili punti di arrivo dei processi sociali ed economici in corso, si elude sistematicamente di tradurli in scelte comuni concrete, privilegiando risposte provvisorie e palliative sull’onda della narrazione ansiogena dell’”emergenza permanente”

Eppure le direttrici dei macroprocessi in atto sono chiare: transizione demografica, transizione digitale, transizione energetica

Allora come interpretare e prevedere le trasformazioni, come prendere oggi le decisioni più importanti, come progettare strumenti, soluzioni e politiche per costruire un futuro sostenibile per la nostra società?

Ci sono alcuni ambiti fondamentali interconnessi e complessi su cui agire da subito: l’immigrazione, la denatalità, la scuola, l’invecchiamento della popolazione.

Un esempio per tutti: non esiste alternativa al globale e strutturale fenomeno dell’immigrazione, salita in Italia in 20 anni dal 2,7% all’8,6%. Nel contesto italiano di denatalità, l’immigrazione – lungi dall’essere un’emergenza (come spesso sostenuto da una narrativa ignorante e becera che contrappone natalità e migrazioni) – è un’opportunità storica che fornisce un apporto demografico irrinunciabile:pensiamo alla realtà – sotto gli occhi di tutti – della chiusura di scuole e di fabbriche per mancanza di platea autoctona rispettivamente infantile e lavorativa.

Secondo uno studio congiunto di Banca d’Italia e ISTAT del 2023 il calo della popolazione in età lavorativa – con conseguente riduzione del proprio potenziale produttivo – richiede un aumento del tasso di occupazione e soprattutto un’attenta politica migratoria.

Dai dati si comprende bene come solo attraverso una politica migratoria esplicita di integrazione che ampli i flussi migratori previsti, i canali di ingresso regolari, lo ius soli e lo ius culturae, si potrebbe raggiungere quella quota di 100 mila immigrati in più ogni anno (al netto delle emigrazioni, soprattutto giovanili, dall’Italia che sono cresciute del 44% negli ultimi 10 anni!) che consentirebbe di mantenere stabile la popolazione e alimentare il mercato del lavoro.

Come scrive il demografo Billari nel suo bel libroDomani è oggi – costruire il futuro con le lenti della demografia”, si tratta “di costruire una società aperta e realmente inclusiva, amichevole, rispettosa delle diversità, cosmopolita, dove la qualità della vita è alta, i giovani non devono fuggire all’estero, mentre chi arriva e desidera rimanervi, è accolto e aiutato a integrarsi”.

Si potrebbe dire che il clima attuale della società non rema nella direzione di questa costruzione comune su grandi temi. C’è una segmentazione e un calo di vigore delle spinte collettive, un appiattimento del confronto pubblico su piccole prerogative e micro-comportamenti personali di basso profilo, un ripiegamento sul presente in piccole rivendicazioni che limita la partecipazione alla vita pubblica e alla democrazia.

Ci sono però dei segnali emergenti da cogliere nella società civile.

Una percentuale media superiore al 75% di italiani è favorevole al riconoscimento della cittadinanza per i minori nati in Italia da genitori stranieri regolarmente presenti, e per gli stranieri nati in Italia o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato un percorso formativo nel nostro Paese.

E si nota un generale miglioramento dell’impegno e della partecipazione civile – soprattutto giovanili-  ad esempio in termini di cash mob e slot mob, organizzati con finalità etiche, a beneficio della collettività.

Più in profondità inoltre, le recenti emergenze pandemiche e di guerre, amplificando il senso di fragilità individuale, hanno probabilmente determinato in molti un ripensamento del senso della vita e delle priorità cui dedicare le proprie energie.

Nel Rapporto sul “Benvivere nelle province italiane”, di qualche mese fa, emerge come la pur importante qualità di vita(in genere identificata da indicatori “oggettivi” quali PIL, buon reddito e organizzazione sociale), non è sufficiente a dare all’esistenza delle persone quella pienezza e “soddisfazione di vita” – ovvero la felicità – che scaturisce da crescenti relazioni interpersonali e partecipazione. Peraltro relazione e partecipazione sono parole chiave anche nel successo delle imprese (in quanto ambiti di sinergia di competenze complementari) e anche in quella ricerca di armonizzare vita lavorativa, extralavorativa e privata così preziosa agli occhi di sempre più persone.

L’uomo da sempre, ovunque e comunque,naturalmente tende alla socialità, al “noi” più che all’ “io”: l’altro è addirittura parte essenziale del definirsi della nostra identità.  Questo ci fa ben sperare.

Come ha scritto Andrea Riccardi a proposito della pace del Natale :”Innanzitutto,  è una gioia condivisa: crea un “noi” che si raduna e non si risolve in un “io” che consuma”.

In tal senso è significativa e incoraggiante la concordanza di linguaggio tra due figure di rilievo come il Presidente Mattarella e Papa Francesco, nel richiamare la rivoluzionaria necessità personale di scelte e comportamenti in grado di influire sul corso degli eventi storici, proprio attraverso la partecipazione e la relazione con gli altri, come ad esempio coltivare insieme la cultura della pace e trasmetterla alle nuove generazioni.