Torna il consueto appuntamento con la rubrica di Eliana Iuorio “Lady in the City”.
Sarò sincera, come e più di sempre. E “scomoda”.
Se credete di leggere un articolo a commento della canzone “Mamma son tanto felice” di Beniamino Gigli, avete “sbagliato palazzo” (come si suol dire dalle mie parti): cambiate portale, smanettate sui social, cullatevi nell’idea rosea e profumata che certamente una nota azienda di cioccolatini starà spacciando per il vostro godimento. Non è provocazione, non è per essere irriverente a tutti i costi, ma di belle favole, la qui presente, ne sa raccontare davvero poche, soprattutto quando l’argomento scotta e ce ne sono, da dire.
Di (d)istruzioni per l’uso, oggi, fatene scorpacciate.
Partiamo da un assunto. Non esiste la madre perfetta e, di contro, nemmeno quella imperfetta.
Questo essere mitologico, angelo del focolare di anteguerra memoria, tutta dedita a figli e famiglia, trascurando se stessa ed i propri bisogni, pronta a sacrificarsi all’osso, per le necessità dei propri diretti e dilettissimi parenti,sopravvive unicamente nell’immaginario di chi – evidentemente –non ha ancora ben compreso che le donne-madri sono soggetti di diritto come tutte le altre donne e – ancor più – come tutti gli uomini che insistono su questa Terra. Ma andiamo per gradi.
Una “Festa”: perché? Cosa c’è, da festeggiare? Cosa dovrebbero celebrare le madri di tutto il mondo ed in particolar modo quelle italiane, dedite ad equilibrismi fantascientifici, pur di coniugare vita personale e gestione familiare, che di fatto, ricade sempre e solo sulle donne? Perché rifugiarsi in una festa, nascondendo i reali problemi che quotidianamente appartengono all’universo materno? E poi, ancora. Trovo aberranti, personalmente, queste festività “escludenti”, che tendono vuoi, o no, all’autocelebrazione di taluni ed alla ghettizzazione e confinamento di altri. E chi vorrebbe esserlo e non ci riesce? E chi non ce l’ha, la madre? E chi lo era e poi, per casi avversi della vita, non lo è più? E chi non vuole esserlo e si sente ripetere ogni sacrosanto giorno parole tese a mostrare quanto l’essere donna comporti necessariamente l’essere madre? Credo che nel XXI secolo, certe mortificazioni potremmo evitarle. Ci consideriamo così sensibili, così evoluti, e poi cadiamo in questi stereotipi da cavernicoli.
“Tu, donna, partorirai con dolore” – è scritto in uno dei testi più famosi della storia dell’Umanità. E se mi rifiutassi, di provare più dolore di quanto dovrei aspettarmi, durante il parto? Perché tante madri devono sentirsi “imperfette” od addirittura “inadeguate” già al momento della nascita del proprio figlio, se vogliono farsi praticare delle tecniche di riduzione del dolore, mentre partoriscono? La parto-analgesia, cioè l’uso di tecniche o farmaci per lenire il dolore, eseguita durante il travaglio, su richiesta ed in assenza di controindicazioni, aiuta la partecipazione serena e concentrata alla nascita del proprio figlio; ma – come è facilmente deducibile – è qualcosa di cui tutte le donne hanno diritto, però, nella pratica, solo alcune delle partorienti italiane ne riescono a beneficiare. Al nord, le più fortunate: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, sono le regioni dove vengono stanziati più fondi allo scopo (perché per assicurare una copertura generale di questa prestazione, le Regioni dovrebbero investire fondi per organizzare un servizio attivo 24 ore su 24 con almeno 6 professionisti e non tutte le aziende ospedaliere, ahinoi, hanno i mezzi). Poi, c’è sempre il caso delle strutture dove l’analgesia c’è, ma i medici sono contrari a usarla: a volte per motivi religiosi, a volte per una concezione naturalistica ‘esasperata’ del parto. Accanto a questo, v’è da aggiungere che da un’indagine Doxa, realizzata insieme all’Osservatorio sulla violenza ostetrica su un campione di 5 milioni di donne in un arco temporale di 14 anni (2003-2017), risulta che il 41% delle donne intervistate ha dichiarato di aver subito pratiche lesive della propria dignità o integrità psicofisica, definita “violenza ostetrica”. Le Raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in questo ambito risalgono al 1985 e riguardano proprio le modalità di assistenza al travaglio, al parto e al post-partum. Molte strutture sanitarie ignorano però queste indicazioni. Secondo l’Oms, in assenza di una precisa prescrizione medica, sono da evitare i seguenti comportamenti:
il clistere;
la depilazione;
la rottura delle membrane;
la posizione obbligata durante travaglio e parto;
il digiuno e il divieto di bere;
l’episiotomia (un intervento chirurgico che consiste nell’incisione del perineo volto ad allargare l’apertura vaginale per facilitare l’espulsione del bambino. Per il 61% questa pratica è avvenuta “a tradimento”, ovvero senza aver firmato il consenso informato. Il 15% di queste donne la considera una menomazione dei genitali);
le spinte sulla pancia (manovra di Kristeller);
il taglio precoce del cordone e la separazione della madre e del neonato dopo il parto.
Sono tante dunque le procedure all’interno di una sala parto che possono costituire “violenza ostetrica”.Le partorienti, è bene che sappiano che hanno il diritto ad essere informate su ogni trattamento cui verranno sottoposte e gli operatori sanitari hanno l’obbligo di essere trasparenti sulle procedure attuate. Il reato di violenza ostetrica, non c’è, nel nostro ordinamento e con esso manca la norma che possa sanzionare direttamente questo genere di abuso, ma è possibile, qualora la donna ritenga di aver subito violenza ostetrica, rifarsi a reati già esistenti ed inquadrati dal nostro ordinamento: la violenza privata, le lesioni personali ed in alcuni casi, la violenza sessuale. Allo Sportello legale dell’Associazione INROSA, che rappresento in qualità di avvocata presidente, accogliamo e seguiamo tutte le donne che vogliano parlarne ed ottenere giustizia, in merito.
Questo, se arriva la gravidanza e poi il parto. Ma quando la gestazione si traduce in un aborto spontaneo, o nel parto di un figlio od una figlia che muoiono dopo pochi attimi di vita? Forse non tutti sanno che a queste Donne è riservato un trattamento direi “abominevole”, dal punto di vista psicologico. Il raschiamento avviene nei reparti maternità e non di ginecologia e così la donna che è costretta a partorire un figlio, od una figlia nati morti o che sopravvivono per pochi attimi, sono ricoverate negli stessi reparti, accanto ad altre donne cui il parto ha riservato ben altre gioie. Problemi di posti letto, o semplicemente scarsa attenzione dell’altrui sensibilità, fino alla lesione della dignità della Donna, considerata alla stregua di un semplice numero?
Sono tantissime le coppie che cercano di avere un figlio e non vi riescono naturalmente. Dopo i controlli del caso su entrambi, quando si è davanti alla scelta di ricorrere o meno alla procreazione assistita e la conseguente decisione di procedere, è sulla donna, che grava il carico più pesante. E’ lei, a dover eseguire cure ormonali pesanti e spesso pericolose; è dentro di lei, che si dovrà andare a pescare gli ovuli da congelare; è lei, che a gambe divaricate di fronte a medici di ogni sorta, dovrà essere sottoposta ad un peso fisico e psicologico logorante e – spesso – umiliante. Lei dovrà “covare” ed è in lei che gli ovuli fecondati dovranno attecchire. E la percentuale di successo, di fronte a questi sistemi di procreazione, non è poi così confortante.
C’è chi come la presentatrice Giorgia Surina, ola top model Joan Smalls, ha deciso di congelare i propri ovociti in tempi non opportuni, per avere una gravidanza, perché prese dalle proprie aspirazioni; in questo modo, si sono assicurate di provarcela, quando la carriera sarebbe stata già appagante e definita, pur se in assenza di un compagno. Lo chiamano “il piano B”. La Smalls, oggi, si sta sottoponendo alla Fivet; la Surina (peraltro autrice di un libro che vi consiglio, “In due sarà più facile restare svegli”, edito da Giunti, € 16.90), non ancora, perché sta sottoponendosi alla terapia post intervento a causa di un tumore al seno, ma non ritiene ipotesi peregrina, quella di diventare madre dopo i 50.
Inutile, negarlo. C’è un’aspettativa della società che incombe su ciascuna donna, dal menarca in poi: fare figli, avere una famiglia, generare prole su prole e chi ha ben altre prerogative da giovane, ma non per questo vuol rinunciare ad essere mamma un giorno, è chiaro che la questione si fa spinosa; le tecniche di congelamento degli ovociti, a questo punto, possono aiutare tutte le donne che pure in assenza di un compagno, intendono dar vita ad altri esseri umani. Cathy La Torre, collega avvocata che condivide con me la tutela dei diritti civili (il suo nuovo libro, “Ci sono cose più importanti”, Mondadori, €18.00, sarà in libreria dal 17 maggio), ha avuto modo di citare Margherita Hack, nel suo ultimo contributo su Grazia, spiegando come la grandissima scienziata abbia dovuto “giustificare”, in vita, la sua scelta di non diventare madre, prendendo parte al progetto Lunadigas, documentario di Nicoletta Nesler e Marilisa Piga “teso a far conoscere le ragioni, i diritti ed i pensieri di tutte quelle donne che non si sentono meno realizzate perché non-madri”.
Accanto a chi ricorre alla Fivet, c’è chi chiede in prestito l’utero di un’altra donna per portare a compimento una gravidanza che non si può, o non si vuole gestire da sé: si chiama “maternità surrogata” e ne avrete sentito certamente, alla tv o letto sulle pagine di qualche rivista; penso alla protagonista di Grey’s Anatomy, Ellen Pompeo, o ad altre stars come Sarah Jessica Parker, Kim Kardashian, Nicole Kidman. Scelte naturalmente obbligate, poi, per Elton John, Ricky Martin e Neil Patrick Harris. L’utero in affitto che fa rizzare i capelli in testa a Giorgia Meloni, la quale per affermare ancora di più il divieto già previsto dalla legge 40 del 2004, sulle norme in materia di procreazione medicalmente assistita e per scongiurare la diaspora delle coppie che si recano all’estero, per concludere un contratto di maternità surrogata valido ed applicabile, intende, con il suo nuovo progetto di legge presentato alla Commissione Giustizia della Camera, inasprire il divieto rendendo la gestazione per altri un “reato universale”; il nuovo testo presentato dalla Meloni aggiunge, infatti, che “le pene si applicano anche se il fatto è commesso all’estero”.Per i sostenitori di tale proposta di legge, il contratto di surrogazione di maternità è lo strumento economico per costringere la donna che porta nel grembo il bambino (anche se l’ovulo di provenienza non era suo) di cedere suo figlio alla donna committente, in cambio di denaro: una vera e propria compravendita di bambini. Di contro, v’è chi sostiene che questa è solo una forzatura che svilisce l’autodeterminazione femminile, che concede il diritto di scelta alla donna di gestire il proprio corpo come meglio crede. Ancora, c’è chi è d’accordo con il divieto, ma solo quanto al contratto a titolo oneroso, fatte salve le ipotesi di “maternità surrogata altruistica”, secondo la quale una donna, per sostenere un’altra, si carica della gravidanza a titolo gratuito, per poi cederle il bimbo o la bimba che partorirà. Questa è una questione che solleva non pochi interrogativi e questioni di ordine etico, stante il rapporto che durante la gravidanza si instaura tra madre e feto e personalmente non me la sento di schierarmi per l’una, o l’altra parte; credo fermamente nella libertà di scelta, questo sì, ma che sia sincera, piena, reale e mai frutto di costrizione, o di necessità.
Quando nasce un bambino, lo dice qualcuno di cui onestamente non ricordo il nome (od era semplicemente lo slogan di qualche azienda di prodotti per bambini, chissà!), nasce anche una mamma ed è indubbio, che nel costruirsi questo rapporto, cominceranno ad emergere le difficoltà. Stress, ansia, paura, tristezza, sono i compagni di viaggio di quasi tutte le mamme, che alla gioia infinita, per la “creatura”, dovranno aggiungere e fare i conti con la sindrome da “burnout” e spesso con la vera e propria depressione. Non ne parlo, per spaventare le mamme in fieri, né tanto meno per demonizzare la nascita in sé (sarei ipocrita, sono mamma anche io!), ma solo per normalizzare uno stato, una serie di emozioni e sensazioni che possono provarsi, poco dopo il parto e proseguire, o cominciare anche molto dopo. Troppe, le madri colpevolizzate o schernite, per il loro provare naturalmente stress, nell’occuparsi di un infante urlante, cui cambiare pannolino e dargli latte ogni 2 ore e mezza – tre ore della tua vita, quando a malapena in quel lasso di tempo sei riuscita a lavarti il viso ed a fare milioni di lavatrici, cucinare e forse (dico forse) sei riuscita ad evacuare quel boccone che hai ingoiato il giorno prima. E’ normale: assolutamente, decisamente normale, sentirsi stressate; non è giusto, però, che qualcuno o d oserei dire “qualcuna” ti punti il dito, da mamma sapientona che tutto sa e tutto ha affrontato sempre con il sorriso, perché “la mamma è mamma ed è bellissimo essere mamma”. Pensiamo all’argomento “pasto” del poppante. Quante volte, ci è stato detto che l’attaccamento al seno è importantissimo e quante, che il suggere latte materno faccia “tanto bene” ai neonati? Uhhh!!! Ve lo dico io: un milione di volte. Pensate che pure alle visite poco prima del parto, una signora tanto cara di un’associazione cui tengo tantissimo, ebbe a farmi il pippone sulla storia del latte materno, in ospedale. Tutto giusto, tutto vero, ma cazzo, io di latte ne ho sempre avuto poco e nel mettere sulla bilancia la fame dei miei figli, con i miei maldestri tentativi di assicurargli più latte ed accontentare società ed aspettative altrui caricate sui miei seni, onestamente, ho optato per la serenità di tutti: il sempre sia benedetto latte artificiale. Perché – credetemi –si cresce bene pure a latte artificiale. Non fate troppo caso alle ed ai benpensanti; se si può, bene; se il lattante o la lattante deve morire di fame, nell’attesa che a voi scenda il latte (e l’istinto materno, quel superpotere che arriva subito dopo il concepimento, vi dice che sono solo vani sforzi conditi da illusione e farciti dalla propaganda “latte alle poppe” a tutti i costi), fate come me: chiedete consiglio al neonatologo-pediatra e via di latte artificiale e non sentitevi in colpa, pure se siete proprio voi a non volervelo attaccare al seno. Importante è che cresca sereno o serena, con una madre ed un padre sereni.
Ricordate la cara Charlotte, di “Sex and the city 2” (mi riferisco al film), quando si chiude in una dispensa della sua cucina, perché non riesce a reggere il peso delle due figlie urlanti e colte dai capricci e piange disperata con un barattolo di non ricordo che in una mano e la cornetta nell’altra, a telefono con una delle sue mitiche amiche? Voilà. Capita a tutte. Avrete certamente letto di Louise Veronica Ciccone e del suo appello a Sua Santità Papa Francesco, avvenuto via twitter, qualche giorno fa; lei chiedeva di tornare all’ovile, ottenendo la “cancellazione” (si farà così, poi?) delle 3 scomuniche cui è stata destinataria, nel corso del tempo; io, al contrario, dovrei chiedergliene più di 3, a mio carico, credetemi. TonyG (mio figlio treenne), bimbo discolo e dispettoso (amore di mammà), attaccato alla mia persona più di una cozza allo scoglio, non solo mi fa urlare a dismisura parolacce poco conosciute financo agli autotrasportatori, ma mi spinge fino alla bestemmia (non si fa, oh!), quasi quotidianamente. I miei vicini lo sanno bene ed in più di un’occasione avrebbero volentieri chiamato un esorcista di quelli bravi. Perché, vi dico tutto questo? Per normalizzare il burnout, normalizzare lo stress, normalizzare persino l’idea che il nostro frugoletto (per il quale siamo più che grate di stringerlo tra le braccia) sia un candido e paffuto agnellino indifeso e che siamo noi, ad essere inadeguate. Sono piccoli, sono bambini e bambine, ma “tenene ‘e corna” e se vi fanno incazzare, occorre farglielo capire con le buone, certo ed educarli, certo; ma se capita di sfogarsi urlando, fatelo pure senza sentirvi in colpa, senza pensare che altre madri non lo farebbero e voi siate un demone feroce della Mongolia. La stessa Charlotte, in una scena seguente quella che vi ho citato (quando si trova insieme a Miranda, al bar della loro suite ad Abu Dhabi), dice a Miranda: “Ti rendi conto che io mi sento così affaticata e nervosa, nonostante abbia una babysitter, in casa? Pensa alle mamme che non hanno aiuto!”; la scena segue con un brindisi a tutte le mamme sole che si occupano dei propri figli con le sole proprie forze. Fortunate, coloro che hanno potuto godere dei vantaggi di una famiglia accanto, o di nannies e collaboratrici domestiche varie, nella gestione dei figli e della casa; loro sì, che hanno potuto scaricare su altri i momenti no, per tenersi quelli sì e lavorare in tranquillità. W Kate d’Inghilterra!
Quando le cose, però, si fanno più serie e ci si rende conto che dallo stress e dalla tristezza si passa alla vera e propria depressione, c’è solo una cosa, da fare; non temere e farsi aiutare da uno od una specialista, senza paura. Anche questo, occorre normalizzare! C’è un contributo molto interessante, in proposito, su Save the Children, che vi invito assolutamente a leggere: parla di stress genitoriale e credo sia importante, in questo caso, riferirci a tutte le figure “genitoriali”, non sempre riferibili ad una madre (donna) ed un padre (uomo), bensì a tutt* i genitori ed a coloro che (nonne, nonni, zie, zii) si occupano dei bambini e delle bambine a tempo pieno.
Quando penso ai sensi di colpa ed alla inadeguatezza, che ci assalgono da madri, mi torna alla mente una delle interpretazioni più riuscite di Cynthia Erivo, attrice e cantante inglese di grandissimo valore, che nel quarto episodio di “Roar” (la serie tutta al femminile prodotta da Nicole Kidman, in onda su Apple Tv+), mostra le ferite sulla pelle di queste emozioni negative vissute nell’anima; vere e proprie piaghe da morsi e lacerazioni di origine psicosomatica, che colgono la protagonista, per la frustrazione del non essere stata ascoltata dai medici che stavano aiutandola nel parto. “Si pensa, a causa di stereotipi di genere, che noi donne nere siamo più resistenti al dolore; se ci lamentiamo per un disagio, se esprimiamo un dubbio su come si agisce sul nostro corpo, non veniamo ascoltate. La conseguenza? In Inghilterra, la mortalità femminile in gravidanza è quattro volte più alta, rispetto alle donne bianche e i decessi in sala parto sono in vertiginoso aumento” – così, ha dichiarato la Erivoa Raffaele Panizza, su “Vanity Fair”.Un’altra grandissima Artista, di casa nostra, Monica Bellucci, sulle pagine di “Effe”, in una splendida “intervista a due” con l’immensa Dacia Maraini (conversazione riportata dalla giornalista Antonella Fiori), ha riportato le parole di suo padre, che le diceva spesso: “Sei una femmina in un mondo di uomini e devi stare attenta, perché noi uomini approfittiamo del vostro senso materno, del vostro naturale senso a donarsi, ai compagni come ai figli”.
Con il libro “Lo faccio per me” (Rizzoli, € 16.00), la psicoterapeuta Stefania Andreoli sostiene che il benessere dei figli parte da madri “ego-concentrate”. Comandamento primo: non annullarsi, non scomparire come persone, per dare priorità ai figli. E’ pur vero che una madre che non ha alcun aiuto dall’esterno e dall’interno, il rischio del trascurarsi e non prendersi cura di se stesse è altissimo; cominceranno le piccole rinunce, quali non vedere più le amiche, non andare dal parrucchiere o dall’estetista, non riuscire a fare un pasto decente, senza bimbi attaccati alle ginocchia che implorano la tua presenza, per poi finire anche nel baratro della depressione più buia, quella che può portare a problemi di personalità, nevrosi ed altre patologie responsabili di tanti gesti compiuti da talune madri in danno dei propri figli, fino all’infanticidio. Essere madre significa non dimenticare, non nascondere la donna che c’è oltre la maternità; non trasformarsi in altro da sé. Al diavolo, il senso di colpa che blocca! Al bando i giudizi ed i pregiudizi di chi ci vive intorno! Una madre che si gratifica, che si prende cura di sé, che continua la sua professione ed il suo lavoro, è una madre serena che offre il meglio di sé ai propri figli. Ripeto. Non è facile, se non hai aiuti, ma puoi ritagliarti degli spazi tuoi irrinunciabili, nonostante la presenza di figli cui prestargli cura ed attenzione. Mai e poi mai, perderti. Mai e poi mai, annullarti. La dottoressa Andreoli riferisce anche il paradosso offertole da alcuni figli che arrivano da lei per la terapia a causa della presenza di una madre, nella loro vita, che ha perso ogni interesse e che fa gravare su loro stessi il peso del doverli sentire una priorità. Peggio ancora, poi, quei genitori talmente dipendenti da questa relazione d’affetto, da chiamarli più volte al giorno, da controllarli ancora a 30 anni! I figli non sono uno status symbol e nemmeno un possedimento terriero; ne sono responsabile, da minori, ma occorre vivere la propria vita a 360 gradi, nel mentre li si educa e li si accompagna nella crescita; ad un certo punto arriva il lasciar andare. Star bene, significa far bene e trasmettere il vero amore. Ah, la Samantha Cristoforetti, accusata di andarsene a zonzo nello spazio, piuttosto che badare ai suoi due figli sulla Terra!!! Maledetta!!!
Ok: abbiamo partorito, tutto è andato bene, i nonni e le nonne, gli zii e le zie, le nannies e gli asili ci aiutano, noi continuiamo a lavorare, ci occupiamo di noi stesse e… Ma cos’è, questo gonfiore alla pancia, questa protuberanza che non va più via nemmeno se osservo una dieta equilibrata e faccio tanta plin-plin? Premesso che sapete benissimo quanto per me sia importante il “Body Positive” e quanto siano belle tutte le forme del mondo, purché in salute, voglio introdurvi ad un problema di cui sono ancora poche, le donne a conoscerne. Per farlo, ho avuto l’onore ed il piacere di intervistare per voi Elena Albanese, la presidente dell’Associazione Diastasi Donna ODV.
Cos’è, la diastàsi dei retti addominali e come la si può riconoscere?
La diastasi addominale consiste nell’allontanamento dei due muscoli retti dell’addome. Causa un “cedimento della fascia che li congiunge longitudinalmente”. Si verifica fisiologicamente in gravidanza ad opera di influssi ormonali, tipici di questo stato. Essi sono finalizzati a consentire la dilatazione della cavità addominale per accogliere l’utero in crescita. I due muscoli retti quindi si separano, allontanandosi dalla linea mediana lasciando una lacuna muscolare. Avete presente la “linea alba” che compare sul pancione alla fine della gravidanza? È formata da tessuto connettivo, poco elastico ma molto resistente che, se da una parte si rompe con difficoltà, dall’altra, quando si dilata e si slamina, può non tornare nelle condizioni iniziali. La diastasi, di per sé, è un processo fisiologico, normale a patto che si risolva entro 12 mesi dal parto. Dopo il parto, l’elasticità e la densità dei tessuti devono riprendere i valori iniziali e anche la profondità del “buco” e le sue dimensioni devono diminuire. Si parla di diastasi addominale quando la distanza tra la fascia destra del retto addominale e quella sinistra sia superiore a 20-25 mm. Il primo campanello d’allarme è la pancia gonfia anche dopo 5-6 mesi dal parto, con l’ombelico che tende a sporgere. Un altro segnale tipico è una sorta di cresta (detta anche “pinna”) che, sempre a diversi mesi dal parto, si forma in corrispondenza della linea alba dalla base dello sterno all’ombelico. Si vede in modo molto chiaro quando, sdraiate sulla schiena e con le ginocchia flesse, si prova a eseguire il classico crunch. Anche da sole si può testare la distanza tra le due fasce del muscolo retto. Basta inserire la punta delle dita di una mano nella fessura che si viene a creare, trasversalmente rispetto al retto dell’addome (abbiamo creato anche un video per l’autovalutazione). Se almeno due dita sprofondano, può trattarsi di diastasi. La vera diagnosi, comunque, va fatta dal medico, con un’ecografia della parete addominale o una risonanza magnetica.
Sono tante, le donne, soprattutto post-gravidanza e post-parto, a presentare questa vera e propria patologia; in tantissime, oltre ai disturbi fisici dovuti alla diastàsi, devono affrontare disagi che definirei “da contatto sociale”: persone invadenti, che davanti all’addome pronunciato, non si fanno problemi a porre la solita domanda: “Ma sei incinta? Sei incinta ancora?”. La Tua esperienza ti porta ad incontrare tante donne e ad ascoltare tante testimonianze. Ce ne puoi parlare?
Sono mamma di due bambini avuti nel 2010 e nel 2014, entrambi parti naturali. Subito dopo il secondo parto mi resi conto che la mia pancia non stava tornando come prima, avevo una specie di palloncino ogni volta che mangiavo, fino al punto di indurre molte persone a chiedermi se fossi di nuovo incinta. Inoltre facendo esercizi sull’addome notai una strana protuberanza e non capivo di cosa si trattasse, dato che il mio addome era molto tonico, avendo fatto danza per molti anni. Iniziarono poi dolori alle anche, alla schiena e di conseguenza la mia postura iniziò a cambiare fino a portarmi un cedimento del bacino mentre camminavo. Non riuscivo più a giocare con i miei figli, a correre, a ballare, perché sopraggiunse l’incontinenza. Iniziai così le mie ricerche, andando da chirurghi e vari professionisti per capire cosa mi stava accadendo. Ero molto giovane ma la mia vita era talmente cambiata che sembravo una ottantenne! Inizialmente volevano operarmi per un prolasso della vescica e dell’utero, ma io continuai sentendo altri pareri. Con una semplice visita ginecologica, il medico mi disse, solo guardando la mia pancia, che si trattava di diastasi. In pratica i retti addominali che si erano aperti durante la gravidanza non si erano richiusi dopo il parto e mi spiegò che l’unica soluzione era l’intervento chirurgico. Vivendo a Roma, feci il giro di tutti i primari di chirurgia di diversi ospedali ma non tutti erano disponibili ad intervenire, perché avevo una bella pancia non soffermandosi ai problemi funzionali che secondo loro non erano dovuti alla diastasi dei retti addominali.
Inoltre mi paventarono solo la possibilità di un taglio chirurgico verticale. E questo sarebbe stato un ulteriore disastro per la mia pancia già tanto modificata. Psicologicamente ero a pezzi, ero molto confusa, vari specialisti dicevano cose completamente diverse. Piangevo ogni giorno perché non riuscivo a trovare una soluzione diversa e soprattutto perché dovevo subire degli interventi importanti: prolasso di due organi e taglio verticale per diastasi addominale. L’ultima visita, tanto per provare, fu all’IDI di Roma. Mi visitò il Primario di Chirurgia Estetica e ricostruttiva, dott. Alessio Caggiati che mi mise subito in lista per l’intervento. Mi spiegò fin da subito che i miei problemi funzionali erano dovuti alla diastasi e che non mi avrebbe fatto un taglio verticale dallo sterno al pube ma avrebbe tagliato da anca ad anca, scollato i tessuti fino allo sterno e ricucito, sistemando anche l’ernia che nel frattempo si era formata. Il 21 novembre del 2016, giorno dell’operazione, ebbi la mia rinascita. Tutti i problemi sparirono. Oltre ad aver migliorato tantissimo l’estetica della mia pancia e del mio ombelico, non ho più il terribile mal di schiena che mi accompagnava ogni giorno, è tornata la stabilità del bacino, e sono scomparsi molti altri problemi che la diastasi provoca. Decisi così di aiutare le altre donne/mamme con questa patologia per non farle soffrire e non farle passare i miei stessi problemi economici e psicologici. Scoprii con il passare del tempo che questo intervento non era mutuabile in tutte le Regioni Italiane e che molte donne con i miei stessi problemi avrebbero dovuto pagare almeno 8000 euro per sistemare la situazione. Iniziò così la mia LOTTA con l’aiuto di altre mamme per cercare di non far pagare tutti questi soldi che per una madre di famiglia sono veramente troppi. Aprì subito un’associazione che si trasformò poi in Organizzazione di volontariato con lo scopo di DIVULGARE LA PATOLOGIA, FARE PREVENZIONE ED AIUTARE LE ALTRE MAMME.
Come si cura, la diastàsi?
La diastasi addominale – ad oggi – può essere risolta unicamente sottoponendosi ad intervento chirurgico con rafia dei retti addominali. Tale intervento non deve essere considerato unicamente con finalità estetiche: è l’unico modo per guarire da una seria patologia degenerativa.
Raccontami dell’Associazione che rappresenti in qualità di Presidente, “Diastasi Donna ODV”: com’è nata, quali le iniziative e gli eventi per sensibilizzare le Donne e la popolazione, al tema. Come fare, per contattarvi e trovare sostegno, in questo cammino di guarigione fisico e psicologico
Diastasi Donna OdV nasce dallo sforzo comune di mamme affette da diastasi addominale a seguito della gravidanza. L’Associazione divulga quante più informazioni possibili su questa patologia, che risulta ancora quasi del tutto sconosciuta sia a chi ne soffre sia, cosa ancora più grave, a medici ed operatori sanitari. Esiste una grave disinformazione non solo sui sintomi e sulle modalità di accertamento della patologia ma soprattutto sulle serie conseguenze che essa comporta. Se non curata, comporta la comparsa progressiva di patologie a carico della colonna vertebrale e degli organi interni, che non vengono più protetti dai fasci addominali. Possono insorgere ernie e protrusioni sino a stati invalidanti che compromettono notevolmente la qualità della vita della donna.
COSA FACCIAMO:
PER IL PAZIENTE: forniamo aiuto, sostegno a tutti i pazienti affetti da diastasi dei retti addominali o che sospettano di averla. Sosteniamo le donne già dalla gravidanza per fare prevenzione. Divulgazione e prevenzione sono le parole fondamentali della nostra Associazione.
PER IL PROFESSIONISTA: aiutiamo i medici ed i professionisti a conoscere la diastasi dei retti addominali, fornendo loro materiale utile che l’Associazione ha grazie all’esperienza del gruppo di supporto con 30.000 donne.
Ci teniamo ad evidenziare che l’Associazione Diastasi Donna OdV è un’ORGANIZZAZIONE DI VOLONTARIATO giuridicamente riconosciuta – senza scopo di lucro – che si occupa di:
– tutelare il diritto alla salute delle donne con diastasi dei retti addominali;
– promuovere i diritti delle donne con Diastasi dei retti addominali e
– migliorare la qualità della vita delle donne con Diastasi dei retti addominali.
L’Associazione persegue questi scopi attraverso:
– incontri e convegni per diffondere la conoscenza della patologia diastasi dei retti addominali a tutte le donne;
– l’organizzazione di campagne di sensibilizzazione per far riconoscere la patologia e le cure al SSN in tutte le Regioni Italiane;
– l’assistenza, il supporto psicologico e l’orientamento alle donne con la patologia di diastasi;
– l’aiuto alle donne nel post parto nella scelta delle cure più adeguate per la diastasi e per gli esercizi di rinforzo.
L’Associazione svolge, inoltre, attività di sensibilizzazione ed informazione del pubblico, anche grazie alla collaborazione con i medici e professionisti che- a titolo gratuito – forniscono il loro supporto occupandosi dei contenuti scientifici degli articoli veicolati. Diastasi Donna OdV, infine, si occupa di stipulare apposite convenzioni con professionisti e aziende che possono essere di aiuto alle donne, al fine di creare una rete di supporto a tutte le associate.
Essere una Organizzazione di Volontariato è, quindi, ben diverso da essere un gruppo facebook non organizzato e non sottoposto a controlli di alcun tipo.
Anche Diastasi Donna OdV ha un gruppo facebook ma è una parte del tutto. È uno dei canali, è uno dei tanti mezzi che l’associazione utilizza per veicolare le informazioni utili alle donne che la seguono, per supportarle, guidarle nelle scelte e sostenerle in ogni momento del loro percorso. E’uno strumento davvero importante per l’attività dell’OdV ma rimane, comunque, una dei tanti canali social da gestire, grazie al lavoro di uno staff ben strutturato di moderatori che controllano che i post siano in linea con quanto previsto dal regolamento (accettato dai membri al momento del loro ingresso) ma che comunque non ha una validità giuridica.
Per avere informazioni e per contattarci
https://www.facebook.com/diastasidonna/
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DIASTASI DONNA® ODV – Pazienti che lottano per il SSN
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Il corpo che cambia necessita di abiti adatti ad accogliere il pancione che cresce; devo dire che guardare la pop-star Rihanna, in questi mesi di gravidanza, con il grembo bene in vista, d’inverno come in questi gironi di primavera, mi ha fatto sorridere, paragonando il suo outfit a quello mio, durante le mie due gravidanze di Duda e TonyG. Lei, a pancione scoperto ed abiti ricchi e decoratidi alta moda (da Dior, a Jean Paul Gaultier; da Marc Jacobs, a The Attico; da Roberto Cavalli, a Gucci, ad Off-White); io, con leggins Prenatal rigorosamente premaman scuri e ben larghi, corredati da maglioni sempre della stessa linea, ultra size! Anche questo, è un pregiudizio da sfatare, insomma. Largo al “punto vita” alla luce del sole, anche per chi è in gravidanza e vai di vestirsi con femminilità, soprattutto in un momento come questo, che rappresenta in ogni caso un tempo magico, da vivere appieno e con consapevolezza. La regola è sempre la stessa: comportati come più ti fa star bene e vestiti seguendo la stessa idea.
Certo che per acquistare gli abiti della Rihanna, occorre un lavoro e pure ben pagato! Ma cosa si può fare, quando le porte delle aziende ti si chiudono in faccia, al colloquio, perché sei donna, giovane ed in età da poter generare (o se hai già dato prole)? Ne sa qualcosa Elisabetta Franchi, che ad un evento pubblico ha candidamente ammesso di assumere donne oltre i 40 anni, perché sono in qualche modo fuori dai problemi legati alla maternità; oppure il Burger King del centro commerciale di Terni, che ha dichiarato di essere alla ricerca di personale, ma che la precedenza sarebbe stata offerta agli uomini.
E’ sulla questione lavoro e rispetto di genere, che ho voluto fortemente incontrare una Donna che ammiro moltissimo, una collega Avvocata ed un’esponente politica di gran pregio, da sempre impegnata sul territorio per le Donne: Ornella Manzi, attualmente assessore al Bilancio presso il Comune di San Gennaro Vesuviano (Na), con un passato da Assessore alle Politiche sociali ed alle Pari Opportunità, che con noi dell’Associazione INROSA e con le tematiche relative alla violenza di genere ha da sempre un “feeling” assolutamente ricambiato.
Secondo i dati dell’Ispettorato del Lavoro, nel solo 2019, 37.911 madri lavoratrici (su un totale licenziamenti di 51.558), sono state dimesse dal lavoro. In più di 10.000 casi di dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto lavorativo, le motivazioni addotte dalle lavoratrici madri, sono state a causa della “difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze della prole”. Tra le principali cause addotte, figurano l’assenza di parenti di supporto; l’elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato (es. asilo nido o baby sitters); il mancato accoglimento al nido. Secondo quanto analizzato dall’INPS (XIX rapporto annuale, ottobre 2020), a quindici anni dalla maternità, poi, i salari lordi annuali delle madri sono di 5700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli, rispetto al periodo antecedente la nascita.
Ornella, Tu sei impegnata sul territorio e per il nostro Sud, da tempo immemore; da cittadina attiva, da avvocata e da politica che ha sempre avuto occhio attento alle tematiche di genere e di rispetto di genere, quali sono le Tue riflessioni, in merito?
Sono dati che fanno riflettere e ci danno una visione chiara di quanto la società non si stia impegnando abbastanza per evitare che ciò accada. Purtroppo viviamo in un contesto in cui il ruolo delle madri viene visto con diffidenza dal mondo lavorativo, infatti: sono tanti i datori di lavoro che hanno ancora difficoltà ad assumere una neo mamma perché portati a pensare che la madre essendo insostituibile possa trascurare il lavoro per le esigenze della prole. Per chi un lavoro ce l’ha, è sconcertante pensare anche ai dati Inps che dicono che più del 80% dei congedi parentali è ancora utilizzato da sole donne. Per la mia professione incontro tante madri e tante sono le storie di vita quotidiana in cui mi immergo. Mi è capitato di ascoltare racconti di donne che hanno deciso di abbandonare il lavoro per evitare di delegare la cura dei figli ai familiari, perché terrorizzate dal giudizio di questi ultimi che le avrebbero ritenute irresponsabili o addirittura madri poco amorevoli. Storie di donne costrette a mettere nel cassetto anni di studio e sacrifici. La Politica dovrebbe fare di più: ad esempio, dovrebbe investire nelle strutture come gli asili nido e renderli maggiormente accessibili, come la scuola materna, così da dare la possibilità soprattutto a chi non può permettersi la retta mensile di mandare i figli al nido od all’asilo e dedicare il tempo necessario alla propria realizzazione. Il facile giudizio sul ruolo della donna/madre fa parte di un retaggio culturale che oggi, purtroppo,nell’età della digitalizzazione, non siamo riusciti ancora a scardinare. Il lavoro è tanto e fino a quando continueremo a parlare di differenze di trattamento, salario, lavoro e modus operandi tra un uomo ed una donna, saremo sempre molto distanti dalla mèta.
La pandemia, per i motivi che conosciamo e la conseguente, “fisiologica” ricaduta nel mondo dell’economia e del lavoro, ha certamente portato ad innumerevoli licenziamenti; lo stesso lockdown e la chiusura delle attività di assistenza per i bambini, così come la problematica didattica a distanza, hanno penalizzato tanti genitori lavoratori, soprattutto le madri: in tante hanno scelto di lasciare il proprio lavoro, quando non è stato loro concesso lo smart working (per il genere di lavoro che svolgevano), o quando hanno potuto lavorare da casa solo per un breve periodo. Tantissime donne e madri, però, oggi, pensano a rientrare nel mondo del lavoro, magari in veste di imprenditrici di se stesse. Sempre grazie a Te, sul Tuo profilo instagram, ho scoperto delle agevolazioni ed incentivi previsti dal Mise, per i giovani e donne di tutte le età. Puoi spiegarci nel dettaglio? Cosa possono fare, nel concreto, le donne, per realizzarsi nel lavoro senza penalizzare la famiglia?
Lo smart working,che prima della pandemia era conosciuto da una piccola fetta di lavoratori, oggi ha aperto un mondo su nuove possibilità di lavoro. Il lavoro da casa ha agevolato sicuramente anche i tanti genitori che hanno dovuto seguire i figli durante la Dad ed ha aperto orizzonti a chi ha ritenuto questo metodo più comodo per far fronte alle esigenze lavorative e familiari. Si potrebbe pensare di rendere lo Smart working una scelta del lavoratore e sono certa che a scegliere questa formula sarebbero soprattutto le donne. Ovviamente non tutti i lavori si possono svolgere da casa e questo ha sicuramente indebolito,durante la pandemia, le famiglie e le madri costrette al lavoro in presenza. Oggi sono tante le donne che lavorano anche grazie ai social e riescono a monetizzare, per far fronte alle esigenze della famiglia. È un nuovo modo di guadagnare e spesso nasce dalla problematica dell’assenza di lavoro e soprattutto dalla necessità di poter gestire orari e modo di lavorare. Sono tante anche le possibilità che si possono cogliere per mettersi nuovamente in gioco, o per iniziare una nuova attività. Appunto la misura introdotta dal Mise e cioè “Il Fondo Impresa Donna”, che è un sostegno finanziario introdotto al fine di promuovere l’avvio e il rafforzamento dell’imprenditoria femminile. Il Fondo finanzia programmi d’investimento da realizzare entro due anni e con un tetto di spese ammissibili fissato a 250.000 euro per nuove imprese e fino a 400.000 euro, per quelle già esistenti.
Gli interventi di supporto del Fondo Impresa Donna possono consistere in:
contributi a fondo perduto per avviare imprese femminili con particolare attenzione alle imprese individuali e alle attività libero professionali in generale e con specifica attenzione a quelle avviate da donne disoccupate di qualsiasi età;
finanziamenti a tasso zero o comunque agevolati. È ammessa anche la combinazione di contributi a fondo perduto e finanziamenti – per avviare e sostenere le attività d’imprese femminili;
incentivi per rafforzare le imprese femminili, costituite da almeno 36 mesi, sotto la forma di contributo a fondo perduto del fabbisogno di circolante nella misura massima dell’80% della media del circolante degli ultimi 3 esercizi;
percorsi di assistenza tecnico-gestionale, per attività di marketing e di comunicazione durante tutto il periodo di realizzazione degli investimenti o di compimento del programma di spesa, anche attraverso un sistema di voucher per accedervi;
investimenti nel capitale, anche tramite la sottoscrizione di strumenti finanziari partecipativi, a beneficio esclusivo delle imprese a guida femminile tra le start-up innovative e le PMI innovative, nei settori individuati in coerenza con gli indirizzi strategici nazionali.
Per accedere ai finanziamenti del Fondo Impresa Donna, consiglio di informarsi presso un consulente del lavoro. La procedura è attiva dal 5 maggio 2022, per la compilazione della domanda per le nuove imprese e dal 24 maggio, per lo sviluppo di aziende preesistenti.
Sei la splendida madre di uno splendido bambino. Cosa significa, per Te, la maternità?
La maternità cambia una donna radicalmente. Ad esempio cambia per sempre l’aspetto fisico, ma questo è ciò che conta meno: la vera trasformazione viene dall’anima che si fasecondo me più dolce, più amorevole e più bella. È anche vero che essere mamma significa, vuoi o non vuoi, imparare il senso del sacrificio, inteso in modo completamente diverso da quello provato fino al momento del concepimento. Non è sempre facile e le donne questo lo sanno; è un’esperienza unica, ma che nel privato nasconde tante fragilità. La vita che si trasforma del tutto, il travolgente amore, la gioia, l’ansia, l’attaccamento, molte cose cambiano, soprattutto nell’emotività e bisogna essere forti e stabili per fronteggiare il tutto. Quando nasce un figlio nasce una madre: si commettono errori, si può inciampare ed è importante avere accanto in questo percorso persone che ci amano, ci aiutano, ci supportano senza giudicarci, perché – si sa – che “mamme non ci si nasce, ma lo si diventa”. Noi donne, rispetto agli uomini, sappiamo essere “multitasking” e per questo motivo, sempre e solo con il sostegno della famiglia e della società,possiamo riuscire a sentirci mogli, madri e donne realizzate nella vita, come nel lavoro. Essere madre non significa mai trascurare sestesse, però:la maternità è un valore aggiunto, per il raggiungimento dei nostri obiettivi personali, secondo le nostre scelte; mai dimenticare – in ogni caso – di essere persone e donne, prima dell’essere madri. Mi chiedi della mia maternità e ti rispondo che mio figlio è la cosa più bella che mi sia capitata nella vita e pensoche mi abbia resadecisamente più forte.
E’ proprio il concetto della mamma multitasking che le attiviste femministe e blogger di “Mammadimerda”, Francesca Fiore e Sarah Malnerich, con un delizioso e satirico account instagram da 132mila followers (mentre vi scrivo) ed un secondo libro in uscita giovedì 12 maggio (“Non farcela come stile di vita – Ua guida per diversamente performanti”, Feltrinelli, € 15,20), non riescono ad accettare. Sostengono che il concetto di madre multitasking fa comodo a questa società maschilista di stampo patriarcale, che se non possiedi le braccia della Dea Kali e ti fai in quattro, per i tuoi figli, sacrificandoti fino all’inverosimile, sei solo una #mammadimerda ; è uno stereotipo che costringe le mamme a giustificarsi ed a sentirsi inadeguate, se non corrispondono all’ideale della madre devota ai figli e regina della casa. Per dirla con la giornalista e scrittrice Elisabetta Amorosi, la contrapposizione tra madri dalle mille risorse e quelle “imperfette”, perché non corrispondenti al modello imposto dalla società, è “la sadica soluzione che il capitalismo patriarcale ha pensato per noi: scaricare sulle madri la responsabilità della mancata conciliazione tra famiglia e lavoro”.
Insomma, il mondo è bello perché vario, si dice: no? Ciascuno e ciascuna ha le proprie idee ed il proprio stile, nell’esercitare la genitorialità e la maternità. Che nessuna si debba sentire inadeguata, perché non risponde al modello tenacemente proposto da parenti, amiche, conoscenti. Se partorisci col cesareo, no: non sei da meno di chi partorisce naturalmente; se vuoi alimentare il poppante con il latte artificiale, piuttosto che quello del tuo seno va benissimo, così come il contrario. Se vuoi mandare a fanculo figli e marito e fuggire ai tropici da sola o con chi cavolo ti pare, fai benissimo (così pure se vuoi stare a casuccia con loro finché morte non vi separi, bene inteso). Parola d’ordine è stare bene, sentirsi bene e soprattutto non annullarsi mai e poi mai per nessuno, nemmeno i figli.
A conclusione di questo focus, mi tornano alla mente le parole scambiate con la mia amica Adriana, madre felice, che nella maternità si sente completamente realizzata. Mi dice che, però, occorrerebbe riconoscere a chi si occupa dei propri bambini h24, l’importanza che questo ruolo ha nella società; di quanto, in realtà, una madre casalinga lavori molto di più di un* qualsiasi CEO di azienda e di quanto, aucontraire, la prima non riceva né apprezzamenti dalla società, né tantomeno emolumenti. Questo è un lavoro che si fa per amore, ma è assolutamente un lavoro che come tale, se fatto bene, ha ricadute positive sull’intera società. Quel che chiedo, insieme ad Adriana ed insieme a tutte le donne del mondo, è veder riconosciuti i Diritti delle Donne madri.
Nessun assistenzialismo, nessuna concessione particolare: solo riconoscimento di Diritti sacrosanti e rispetto di Genere. Che non ci siano disparità di alcun tipo, tra Donne ed Uomini, nell’esercizio della genitorialità e nel lavoro.
E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 27 aprile di quest’anno, la legge n. 32/2022, che delega il Governoall’emanazione di una serie di decreti legislativi volti ad introdurre nuove misure di conciliazione vita-lavoro in favore della genitorialità, e a rafforzare la struttura delle tutele già esistenti. I provvedimenti attuativi saranno emanati nei prossimi 12 mesi, che arrivano a 24 mesi per quanto riguarda le misure riguardanti il congedo parentale. Le misure di sostegno saranno in ogni caso parametrate al valore ISEE riguardante il reddito familiare e, in parte, estese anche a lavoratori autonomi e professionisti. Con questo pacchetto di deleghe al Governo prendono corpo, quindi, una serie di interventi a sostegno della genitorialità e dei giovani previsti nell’ambito del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza: è il “Family Act”, ovvero una “riforma a sostegno delle famiglie con figli con lo scopo di promuovere la genitorialità e la funzione sociale ed educativa del nucleo familiare, contrastare la riduzione delle nascite, valorizzare la crescita armoniosa delle bambine, dei bambini e dei giovani e favorire la conciliazione della vita familiare con il lavoro, specialmente quello femminile”. Come andrà a finire? Chissà. Leggendo il teso, qualche dubbio mi è venuto, ma ne riparleremo.
Nel frattempo, incrociamo le dita fino alla prossima “Festa della Mamma” e pratichiamo Yoga e Mindfulness, per arrivarci con serenità.
A Voi tutte e tutti, che siete riuscite e riusciti a leggermi arrivando fino alla fine, il mio particolare ringraziamento. Vi stringo con affetto e vi do appuntamento a sabato prossimo sempre sul mio canale Instagram per il “LADY IN THE CITY” IGTV LIVE TALK ed a lunedì prossimo, sempre qui, tra le pagine della nostra amatissima RoadTv Italia (la web tv che sostiene i Diritti civili), per la mia rubrica settimanale.
Che il sole splenda sempre su di Voi!