di Rossana Lamberti.
Il romanzo non dà proprio l’impressione di essere una seconda opera, tale è la maturità introspettiva e letteraria. “Scie ad andamento lento” sembra un’opera lontanissima nel tempo, scritta da un altro autore. “Siamo tutti figli unici” ha un tono sempre uguale che cattura. In contrasto e accompagnando le diverse personalità, accoglie e abbraccia (e di abbracci si parla molto nel libro: abbracci di persone, di atmosfere, di sentimenti, di sensazioni, di ricordi, abbracci ritrovati o perduti per sempre). E, nelle vicissitudini della famiglia Ricci, ci si ritrova tutti nel racconto, con le nostre paure, individuali e collettive.
La storia è un ossimoro in sé, ed è questo l’elemento più intrigante in assoluto. Parla di solitudine, ma è un romanzo corale; è il racconto di tante solitudini individuali che si ricompongono, si riconoscono e si accompagnano vicendevolmente; è la storia di tante parole “non dette” che trova la sua pietra angolare nella comunicazione affidata, da una donna che non riesce più a trovare proprio le parole a causa dell’A., ad epistole postume. E nonna Viola riammaglia, ricuce come in una tela di ragno, la famiglia. E seguendo i fili di quella ragnatela, ognuno ritrova la propria strada, il proprio sé, il bandolo della propria vita inserita nel contesto familiare e sociale. Perché le lettere della nonna, in maniera stupefacente, contengono da una parte l’elogio delle fragilità che appartengono a tutti, a dispetto di quanto ci insegnano e ci impongono, “Essere fragili non è un delitto, anzi è il concentrato inatteso e imprevisto della Bellezza “ [Viola] e dall’altro l’invito a non nasconderle, ma a giocare con le personali paure e timidezze per farne la leva, attraverso la condivisione, della personale realizzazione in un percorso privato e al contempo corale, meraviglioso e quasi miracoloso di autolegittimazione. Poiché come dice, per la precisione come scrive più volte Viola, la solitudine ha bisogno degli altri. Perché senza gli altri si sarebbe solamente soli; e la solitudine ha bisogno degli abbracci degli altri, perché non ci si salva mai da soli.
Nel racconto ogni personaggio, anzi ogni coprotagonista, vive la propria fragilità in maniera privata e solitaria e quindi la solitudine diventa la barriera con cui ci si scherma, il carcere, l’isolamento costruito attorno. Tutti quanti i protagonisti sono, al contempo, vittime e carcerieri di sé stessi. Ma ognuno vive la solitudine in maniera diversa a seconda della propria personalità: Riccardo (il padre) come sofferenza ineluttabile a cui sfuggire solamente costruendo sceneggiature private e segrete di vita; Luca (il primo figlio) come alibi per andare via e cercare un proprio sé in altri posti (come se poi bastassero i cambiamenti esterni a farci ritrovare); Francesco (il secondo figlio) la sceglie come formula di vita per l’incapacità di capire, anzi di accettare le scelte degli altri; ed infine come Ambra che si sente accompagnata dalla solitudine, non sovrastata, che l’accoglie senza farsi infliggere troppo dolore.
“Siamo tutti figli unici” è soprattutto la denuncia della nostra incapacità di comunicare, di chiedere aiuto, della nostra impossibilità di essere aiutati e aiutare perché nei silenzi ci perdiamo come se fossimo in dedali senza uscita.
Perciò l’importanza delle parole, quelle non dette, che isolano; quelle rifiutate; quelle non ascoltate; quelle a cui ci si nega (come fa il piccolo Giacomo); quelle perdute, disperatamente cercate, nei meandri della malattia che lentamente smorza la nonna., ma anche quelle che trovano il coraggio di appalesarsi, magari timorose e timide, quelle che servono a sentirsi vivo tra gli altri.
Nel lessico familiare, nelle parole che ritrovano un senso, i Ricci finalmente si riconoscono accettandosi per gli essere fragili che sono, e al contempo accolgono e accompagnano le solitudini degli altri, senza più fuggire, ma condividendole come un momento di crescita individuale e collettiva, in un percorso che sembra non avere mai fine, in un dejavù che si rinnova di generazione in generazione, così che le parole di Viola si tramandano “per colui o colei che verrà”, senza un limite temporale. E per prima le raccoglie l’adolescente Viola, che porta il nome della bisnonna a riprova, se ce ne fosse stato bisogno, che la vita si perpetua e ripete. Sono per lei un dono inaspettato ricevuto da una persona di cui non ha memoria se non nei ricordi, tramandatele con altre parole, del padre, dello zio. E poi, chissà, altri verranno e leggeranno, altri rivivranno fragilità e ritroveranno, ci auguriamo, se stessi e gli altri. Perciò siamo anche noi Viola, Ambra, Riccardo, Luca, Francesco, Giacomo e Viola….
Non so se sia stato voluto dall’autore, ma mi sento in dovere di evidenziare le due figure femminili che si stagliano nel racconto: Viola e Ambra sono gli unici personaggi che non cercano di scappare, restano ad affrontare la solitudine, certamente in maniera diversa perché sono state diversamente tratteggiate, ma sono loro che non si nascondono. Si lasciano accompagnare, convivono, accettando il loro essere fragili.
Tutto, o quasi tutto condivisibile, io, purtroppo, per quanto abbastanza ottimista, non riesco totalmente a compartecipare alla visione rosea di Viola, ma, come avrete capito, a differenza della sottoscritta, Lei è una vera eroina, quando afferma che “I nostri sensi hanno una percezione innata per le cose belle, per la Bellezza”. Credo, come ci dimostra in tutto il racconto, che la Bellezza debba essere accompagnata, ricordata, insegnata.
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