di Paquito Catanzaro
«L’introspezione di un personaggio deve essere accompagnata da una riflessione profonda da parte di chi scrive». Comincia così la chiacchierata in compagnia di Giuseppe Petrarca, autore di Notte nera, il romanzo recentemente pubblicato da Homo Scrivens per la collana Dieci.
«Il libro» dichiara l’autore in merito alla genesi del romanzo «s’innesta nella tradizione del medical thriller. L’assassino cede il posto a un intrigo su vasta scala dove regnano virus geneticamente manipolati, manovre delle case farmaceutiche, medici criminali».
Tre le tematiche principali della storia. «Innanzitutto il fine vita» dichiara Petrarca «come scelta di dignità, quando una persona diventa solo un individuo, un involucro privato di coscienza e memoria. Poi l’importanza della normalità, la gioia di vivere contro ogni male possibile, perché l’assenza del dolore è già una meravigliosa scoperta; infine il senso di onnipotenza di alcuni medici che hanno potere di vita sui loro pazienti».
A proposito di pazienti, lentamente ci lasciamo alle spalle un periodo a dir poco surreale. Qualcosa che Giuseppe Petrarca aveva profetizzato nel precedente romanzo. «La pandemia che avevo tratteggiato ne L’avvoltoio era un’inevitabile nemesi del genere umano, reo di aver dissipato il patrimonio culturale, sociale ma soprattutto ambientale, a beneficio di interessi biechi e criminali. Il concetto di umanità, nella società odierna, si è sgretolato, mostrandoci i sui lati più deboli. Eravamo arrivati a un punto di non ritorno, come in una polveriera pronta a esplodere. Ora la sensazione di paura sta attanagliando la vita degli individui, rendendoli più docili e rispettosi di certe imposizioni decise dal potere e che riguardano la libertà personale. Una pericolosa deriva democratica».
Prima di concludere: cosa ti aspetti da questo romanzo? «Mi auguro che anche Notte nera sia in grado di portare il lettore verso una profonda riflessione, fino a porsi alcune domande sui mali, le ingiustizie, le tristi e dolorose condizioni di vita delle classi più sventurate. Credo che la scrittura debba avere una funzione sociale. Manca la speranza, la voglia di combattere, di credere nel futuro. Un libro può aprire gli occhi in un mondo anestetizzato e afflitto dalla più cupa rassegnazione».
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