Libro di Angela Procaccini, “D” come… donna, dono, dolore, dolcezza, desiderio, disperazione, dramma

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Dalla corrispondenza tra il numero di parole scelte e il numero di storie in un primo momento si può pensare che ciascuna storia sia dedicata a un elemento, leggendo si scopre che non è così, ma c’è un filo conduttore tra le parole tutte e le storie. Non una parola in ciascuna, quindi, ma tutte le parole in ciascuna storia.

Complesso, ma di una complessità apparente, come nei quadri di Magritte che, immediatamente richiamati nel pensiero, mostrano ben oltre la chiarezza e limpidità di quanto si percepisce con il solo occhio.

Ogni storia, infatti, sebbene scritta nella semplicità della sua evidenza, senza trascurare un registro linguistico accurato e raffinato, ogni storia parla delle donne, del loro modo di rappresentare e auto rappresentarsi, della loro forza e del coraggio di autodeterminazione soprattutto in situazione critica e anche a prescindere dall’età e dall’estrazione sociale come appara evidente da subito in ogni racconto.

E’ stato spontaneo, dopo la lettura, affiancare altre parole con la “D” a quelle scelte dall’autrice: Dignità, Determinazione, Domande, Dubbi, Diritti. Parole che rendono al meglio la molteplice conformazione della personalità femminile e che restituiscono con equilibrio a ciascuna donna la posizione che le spetta nella società e nel tempo, parole performative, che rappresentano cioè concretamente l’azione delle donne e che contrastano quelle che scaturiscono spesso da visioni ancora troppo condizionate da stereotipi e deviazioni culturali, Danno, Dovere.

Dopo l’interessante prefazione della giornalista Bianca Berlinguer, inizia… o forse continua… il libro vero. Ogni racconto usa nel titolo i due punti tra il nome della protagonista e il simbolo o dettaglio che rappresenta il suo vissuto. Due punti per mettere in risalto, senza congiunzioni e/o preposizioni, il valore equanime dei termini; l’oggetto/dettaglio diviene personificazione della persona e delle sue emozioni, un oggetto altrettanto potente e persino più definito.

La persona ci parla dell’oggetto come se stesse scoprendo la profondità di qualcosa precedentemente osservato in maniera fugace e che ora, una volta nominato… perché le cose esistono solo se le si nomina… nominato accanto alla persona, esso diventa il mondo della persona, il suo sogno proibito o nascosto di ansia o di gioia o di paura o di determinata speranza.

L’oggetto diviene come il quadro in The Picture of Dorian Gray di O. Wilde; l’alter ego, nascosto, inquietante, impronunciabile, doloroso e dolorosamente vero.

Il bottone di madreperla bianco, allora, può rappresentare la luminosità e preziosità smarrita, ridestare l’inganno e l’abbandono; i fiori di plastica, disprezzati e sminuiti possono rappresentare il vuoto di ciò che è andato perduto; la foto può essere quel mondo altro che chiede un riconoscimento di esistenza per sé, una conferma di amore per sé e sé soltanto; il cielo nero di pece non è solo l’oscurità del nulla, ma ritorna nei capelli neri come la pece e nella notte nera come la pece senza nulla togliere alla bellezza e alla speranza. La pece, infatti, era usata anche per impermeabilizzare le barche che, nella storia sarà la salvezza della protagonista, o ancora nell’antichità si usava come arma di difesa scaraventata sugli assalitori dei castelli e delle fortezze. Anche l’anemone di mare (attinia) e il mare stesso, o la fontana antica come le e-mail e le orchidee indicano una bellezza che salva, una forza che rinasce e spinge oltre il vuoto e il dolore dell’esperienza personale.

Ogni racconto, inoltre, è preceduto dalle parole di poeti e scrittori che offrono una chiave di lettura e di scoperta alla narrazione senza mai rivelare la veemenza della voce narrante che con parole chiare e nette, parole che non lasciano spazio a false interpretazioni raccontano tutto ciò che c’è da sapere, e solo quello.

Tra le sette, due storie coinvolgono particolarmente: “Rossella: il bottone di madreperla bianco”, perché che immediatamente riporta a un altro libro “Donna a metà” un saggio, in cui è narrata la storia vera di una studentessa, una storia molto simile a quella esposta dall’autrice. Leggendola si torna a riflettere sulla violenza contro i minori e si percepisce che un bambino violato è un bambino precipitato nell’abbandono della parola. Non può parlare di quello che ha subito, lo sa, si vergogna, non ha le parole per narrarlo, teme di essere colpevole e tace. Così la sua angoscia cresce, il bambino sa qualcosa che gli adulti non sanno, che lui tiene nascosto e che gli adulti non vorrebbero sapesse. Tutti i grandi diventano per lui, allora, dei lupi, dei predatori. Nel racconto il bottone ritrovato sollecita la memoria dolente di Rossella. Il dolore si fa più forte e si chiama memoria, anche se si continua a sorridere.

L’altro racconto è “Rosangela: la foto”, perché oltre a riferimenti biografici che nessun autore può non lasciar palpitare nella sua scrittura, esso riconduce a tante storie note vissute negli anni in mezzo ai giovani.

Come non sentire una morsa che stritola l’anima in “Flavia: la fontana del cortile”; come non impensierirsi dinanzi alla scelta di libertà di “Vittoria: l’attinia” e alla consapevolezza sofferta, piegata ma non spezzata di “Liliana: e-mail e orchidee.

Tutti e sette i racconti, però, non parlano solo del dolore delle donne, ma anche della loro capacità di superarlo per creare ancora dal nulla significati e direzioni nuove. Perché questo sono le donne.

Mi piace concludere questo intervento con versi scelti da una poesia di Elisa Kidane, poetessa eritrea, che questo sia anche l’augurio per l’autrice, Angela Procaccini.

E vai

Avanzi maestosa,

più che regina

e nei tuoi occhi

riflessa sta una forza

a te sola conosciuta.

E vai,

con passo fermo

segnato tappe

per capitoli nuovi

di un libro antico.

e continui ad andare,

instancabile venditrice di speranza.

Non importa se la pioggia

inzuppa le tue ossa,

se il sole

brucia l’anima tua,

se la polvere impasta il sudore.

Nei tuoi occhi gentili

riflessa sta una meta

a te sola conosciuta.

E vai.

di Loredana De Vita