In una società dove siamo compulsivamente e stabilmente connessi, lo smartphone, attraverso software e app come Tinder, Facebook, Instagram e Snapchat, con i 2 miliardi di possibili connessioni, ci permette di rincorrere sempre nuovi stimoli e impulsi da soddisfare. Il web, tramite i social, le mail, le piattaforme e gli altri contatti, è il principale mezzo di diffusione di dipendenze, facendone un tratto caratterizzante i nostri tempi.
I social e i sistemi di marketing sfruttano infatti il meccanismo della ricompensa chimica della dopamina – il neurotrasmettitore del benessere, presente nel cervello – per condizionarci a continuare a navigare all’infinito, fino a trasformare il gesto in riflesso non controllato, quindi in automatismo, instaurando di fatto una dipendenza.
Come spiega David Courtwright nel suo” The Age of Addiction” la logica del sistema dei social è quindi quella di spingere i consumatori verso un consumo massiccio, manipolando i loro bisogni verso qualcosa che non hanno (e, spesso, di cui non hanno necessità) se non per soddisfare un desiderio effimero, che diventa poi compulsivo e dannoso.
Interrompere questo circolo vizioso richiede tempo, perché la componente sociale delle piattaforme (aspetti cognitivi, affettivi e di confronto sociale), è parte fondamentale e ineludibile della esperienza umana.
Tutto ciò danneggia la salute mentale personale e collettiva: cresce una generazione sempre più ansiosa e depressa, più sola, polarizzata e incapace di scorgere i problemi reali, peraltro in un ambiente erroneamente percepito come controllato e sicuro.
Spesso non c’è sufficiente comprensione e consapevolezza del costante e accurato studio e monitoraggio operato da gruppi di tecnici su ciò che viene fatto on line, condizionando gli utenti al punto da avere sicuramente meno controllo sulle proprie esistenze e opinioni.
Il macroscopico errore di valutazione di fondo, intrinseco alla partecipazione online, è proprio l’idea – illusoria – di sostanziale libertà e democrazia dei social, che rende in realtà meno reattivi nell’esprimere il proprio reale punto di vista.
BJ Fogg – direttore del Persuasive Technology Lab della Stanford University -con il neologismo “captologia”, afferma che la comunicazione digitale, attraverso meccanismi e tecnologie mirate interattive, svolge un’esperienza di persuasione interpersonale di massa che incide su comportamenti, abitudini, convinzioni e atteggiamenti: in pratica cambia ciò che si pensa e si fa.
La straordinaria illusione di poter condividere liberamente nei social idee e opinioni, intrecciare relazioni personali e professionali, dissimula una realtà completamente differente, totalmente lontana da una reale libertà.
E anche le presunte alternative agli stimoli dopaminergici attuali – come yoga, pratiche di mindfulness, slow life, nuove narrazioni personalizzate – costituiscono solo un altro modo (appagante nell’immediato) di presentismo e adattamento a quel sistema fonte di malessere, senza contestarlo.
Come descrive il filosofo coreano Byung-Chul Han, in “Infocrazia”, anche se gli esseri umani si percepiscono liberi e autentici, vivono in realtà in un “regime” di sorveglianza e controllo dell’informazione e della comunicazione digitale, che si sostituisce alla conoscenza e all’esperienza, determinando i processi sociali, economici e politici.
In un mondo che corre a ritmi sempre più forsennati – al punto da non concedere a volte più neanche gli spazi temporali per mangiare, dialogare, riposare – l’iperattività dei dispositivi digitali sta trasformando inesorabilmente la percezione e l’interazione con il mondo, le relazioni e le dinamiche sociali. Infatti, anche se ognuno percepisce le proprie reazioni come istintive e personali, siamo in realtà tutti utenti indifferenziati e omologati, determinati dalla Rete direttamente nei nostri bisogni, nelle nostre amicizie, nelle nostre modalità di relazione.
Sul web, come ha scritto Enrico Manicardi “tutto è totalmente controllato, programmato, mercificato, iper-sorvegliato”. Questo inaridisce l’autonomia e la capacità vitale, la creatività e la fantasia dei singoli utenti.
Ma soprattutto compromette in essi la socialità, eliminando dall’orizzonte personale la presenza e l’ascolto dell’altro, il senso della collettività. La cultura della rete, lungi dall’essere espressione di quella tanto idealizzata democrazia di rete, viceversa soffoca i sentimenti di gioia, generosità e solidarietà. E non a caso genera un pericoloso analfabetismo funzionale, stretto parente di quell’ ”analfabetismo di democrazia” che recentemente il Presidente Mattarella ha chiesto di combattere “nella società tecnologica contemporanea come causa primaria, nobile, che ci riguarda tutti”.