Tonino Scala è, indubbiamente, un autore “genuino”. Non solo nel senso di autentico, spontaneo e schietto, ma nella sua duplice accezione latina: da “genere”, cioè generare e da “genu” ginocchio che indica, cioè, il riconoscimento da parte del padre che avveniva prendendo sulle ginocchia il figlio. Un autore, quindi, che dà vita, origina, mentre nel contempo è riconosciuto alla vita. Dà vita alla sua narrazione ed in essa è riconosciuto per la sua passione e vitalità.
Questa dualità è resa evidente fin dall’inizio nell’ex terga in cui si legge la seguente frase di Joseph Heller “Quando sarò grande, voglio essere un bambino”.
Non è diverso da questo proposito quello che accade al protagonista del racconto, Mario. Un adulto in grado di atti di coraggio e di rinuncia per il bene di chi gli è accanto, ma anche un personaggio che conserva una visione quasi adolescenziale del mondo e delle cose. Uno che prende tutto sul serio sebbene appaia che ogni cosa sia soltanto un accidente o un incidente.
Mario conserva il suo sguardo adolescente anche nelle pulsioni sessuali che accompagnano i suoi sogni e i suoi desideri; eppure, non perde la forza creativa e immaginativa, nei sogni come nelle relazioni umane; non perde la fantasia e la sagacia che lo porta ad amare senza le restrizioni delle consuetudini sociali sia le persone sia i luoghi.
Il titolo del racconto, “Lo spicciafaccende”, rende chiaro il molteplice ruolo del protagonista. E’ uno che fa tutto o niente, ma con poco o nulla e per poco o nulla.
Forse, la semplicità e indeterminatezza del “nuovo mestiere”, lo spicciafaccende appunto, è l’esatto opposto della compiutezza e alta definizione della professione che svolgeva prima: l’ispettore di polizia.
In questo contrasto tutta la pienezza di una profonda maturità e attenzione all’altro nascosta dietro la superficialità e faciloneria degli atteggiamenti e delle parole con cui Mario si confronta con gli altri protagonisti e con il mondo.
Lo spicciafaccende è uno che risolve i problemi ed è questo che Mario vuole fare, persino nell’appellativo di “ufficio” con il quale chiama l’auto nella quale riceve le persone che chiedono il suo intervento. Questo è quello che ha da offrire ad Angela, la donna che nella storia gli chiede aiuto. Mario vuole aiutarla e, sebbene ne sia attratto in quanto donna, ciò che prevale in lui è il senso di compassione per la situazione e l’impellenza del darle aiuto, quell’aiuto nel quale si comincia e si chiude in ogni senso il suo amplesso adolescenziale.
L’auto è un “ufficio mobile” non solo perché non può permettersi altro, ma perché vuole restare libero e il bisogno, quello vero, può nascere ovunque e in ogni luogo improvviso e imprevedibile. Proprio così, inattesa, nasce infatti la storia di cui si narra, il mistero che Mario deve risolvere.
Tonino Scala – Mistero napoletano
Il sottotitolo, Mistero napoletano, è davvero quello che significa: un mistero tutto napoletano. La storia si sviluppa, infatti, non solo nei luoghi geografici che si configurano come napoletani, ma dentro e attorno a Mario in quei paesaggi interiori che la cultura napoletana può creare.
Il mistero, nel racconto, non è solo inteso nel senso della migliore tradizione dei “detective case”, ma è misterioso e solenne come solo nella tradizione napoletana un mistero può essere.
Un mistero che si riveste di chiari e di scuri, di tinte forti e di colori pastello. Un mistero che va oltre la soluzione concreta del caso e che lascia ironicamente senza respiro.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un duplice respiro mancato: da una parte quello dell’ansia per l’incomprensibile; dall’altra quello del fascino della bellezza di ogni paesaggio descritto.
Nell’intera narrazione, oltre la storia, la vera protagonista è la “napoletanità”; una cultura profonda e interna alle persone e che Mario non desidera abbandonare mai.
La narrazione, infatti, sempre ironica, scorre attraverso temi tipici come la carnalità (per es. Capri, isola dell’amore il cui profilo ricorda il ventre rigonfio di una donna gravida); il linguaggio, ricco di forme dialettali e di proverbi; le tradizioni (anche alimentari); l’amore per il calcio (il Napoli e poi quella Stabia che mai si può chiamare col suo nome completo Juve… i tifosi sanno perché); l’incessante senso del provvisorio (l’ufficio, il tempo, il Vesuvio, il mare… belli e terribili assieme); la musica, il gioco al lotto, il culto dei morti (eros e thanatos); Ursula/il femminiello che fa anche i tarocchi.
Non mancano riferimenti all’attualità: la strage dei rifugiati a Lampedusa, la strage di Charlie Hebdo a Parigi. Utili a riportare nella realtà la poesia e magia della narrazione.
In particolare il riferimento a Lampedusa può essere ricollocato con un passato non antico per la gente del Sud, quello dell’emigrazione al Nord per cercare lavoro. Chiara la reazione del protagonista di distacco rispetto a quelli che, emigrati, hanno abbandonato la propria cultura e persino l’accento dialettale nel tentativo di rientrare in una “normalità” che non fa parte di sé. Una normalità che è solo “stare alle norme” ma che non corrisponde alla propria originalità.
Il tono della narrazione è talvolta dissacrante senza mai essere offensivo, mentre in alcune descrizioni l’autore tocca punte di poesia che evidenziano il suo amore per la sua terra e la sua città. Un amore che non tradisce e che segna nel profondo la passione per l’unicità senza tradimento e senza abbandono di una città e di una cultura che ha ancora molto da offrire.
Recensione di Loredana De Vita