Le paure. Una: la paura inconscia con cui si cresce all’improvviso quando, in un giorno non preciso ma certo della tua adolescenza, ti viene detto di non accettare le caramelle dagli sconosciuti. Quello è il momento esatto in cui incominci a perdere la tua innocenza, a negarla e a renderti conto che il male esiste e che non dipende solo da chi si impossessa dei tuoi giocattoli, ma da chi ti seduce con il sorriso e le caramelle e tutte le promesse che agli occhi di un bambino appaiono innocenti e invitanti e annunciano la nuova avventura alla quale non puoi mancare.
Ricordare, d’un tratto, quel tuo momento esatto di inizio di paura vera e scoprirlo collegato a un episodio del passato non tuo privato, ma nazionale per un male contro cui non c’è riparo, che non puoi spiegare e che sai di non poter spiegare un domani ai tuoi bambini se non con quella frase “non accettare caramelle dagli sconosciuti” che apparirà assurda a loro che non capiscono e che solo dal tono grave e triste della tua voce sapranno che è una cosa seria e non un’avventura nuova che si ha voglia di giocare con loro.
Partecipare alla presentazione di “L’uomo nero ha gli occhi azzurri” della giornalista e scrittrice Giuliana Covella presso la U libreria la cui responsabile, Valentina Castellano, ha aperto le porte, è stato rivivere quel momento esatto e calarsi in una storia dal sapore antico ma, purtroppo, ancora troppo moderno. L’autrice, moderata con maestria e profondità da Anna Copertino, giornalista e referente di Libera sede di Giugliano e coadiuvata dalle parole semplici ma incisive di Paola Cipolletta, di Contro le Mafie, ha calato il pubblico nella storia dolorosa e interrotta delle due piccole Nunzia Munizzi (10 anni) e Barbara Sellini (7 anni) che sono divenute testimoni mute non solo dell’infamia che subirono, non solo del dolore della famiglia per la loro morte atroce, ma anche di un angosciante “errore giudiziario” tanto più angosciante in quanto pilotato da connivenze malavitose che hanno spento lo sguardo e la fiducia di troppi cittadini onesti che hanno smesso di credere che una giustizia esista davvero.
A rendere ancora più interessante l’incontro, la presenza di Ferdinando Maddaloni che non solo ha reso splendida lettura di alcuni brani del libro, ma è stato egli stesso prezioso testimone del percorso di indagine di Giuliana Covella. Inoltre, la presenza dell’ex Procuratore di Napoli Giandomenico Lepore, ha dato ancora maggior significato e spessore al dibattito.
Un libro non solo da leggere, ma da riflettere perché la storia che racconta è anche la storia contemporanea di altri nomi e altri volti che sono stati e sono vittime del silenzio, dell’omertà, della paura a testimoniare il vero.
L’uomo nero ha gli occhi azzurri, questo è il titolo, ma anche il mondo di favole dei bambini. Nero come l’orco, azzurro come il principe coraggioso. Allora, il principe può non essere principe, ma un orco che si nasconde sotto mentite spoglie e che approfitta dell’ingenuità e di quella libertà che solo i bambini possono avere. Il principe è un orco camuffato. Un orco che può riuscire a nascondersi solo perché gli altri intorno restano a guardare, silenziosi, impauriti, complici innocenti, forse, del male che cresce, si libera e si rivela: un orco.
Questa è anche storia presente, non me ne voglia l’autrice se sposto altrove il mio discorso e i miei pensieri; d’altra parte un buon giornalismo d’inchiesta, e questo di Giuliana Covella lo è, suggerisce di guardare con lo stesso occhio altri eventi, altri silenzi, altre ingiustizie che sono poi quelle che dovremmo temere davvero invece di accettarne l’infamia e il silenzio.
Assistiamo a una perdita di verità. E questo è anche il presente. Simulazioni di verità che simulano il diritto alla giustizia, ma nascondono appoggio e connivenze con organizzazioni che con la giustizia e la legalità hanno davvero poco a che vedere. Si gioca con la verità per nasconderla, per far credere che il principe sia l’orco e quello che tutti possiamo riconoscere come orco, come il male assoluto incarnato nelle persone, sia invece il principe.
L’orrore delle immagini per conquistare la verità, ma ci sono verità che vanno oltre le immagini e le persone che le propongono. Ci sono verità diverse da quello che si vede, sotterranee e sommerse che si confondono nel disagio e nella paura e nella confusione di quanto è mostrato. Ci sono, infatti, cose esibite per ampliare la confusione e distogliere l’attenzione dall’essenziale, questa confusione non è mai la ricerca della verità e non basta mai alla verità stessa perché oltre quel visibile c’è molto di più.
Qual è il problema, allora? Perché ci fermiamo solo in superficie? Forse perché abbiamo in realtà perso la capacità di stupirci e perché sembra che ogni principio sia morto nella mente dei più e per gli altri non è sempre facile aprirsi una strada. Mi domando, soltanto, e non è poco, ma come si fa a fare dei progetti se non ci sono più principi? Attorno a cosa si può costruire il valore e il senso dell’esistenza? E come si rende possibile un’educazione se non si ha idea del futuro? Come è possibile guardare aventi se tutto si riduce all’hic et nunc che si esaurisce in un “nunc”, in un attimo? È la storia del gatto che si morde la coda, ma se riuscissimo a distrarlo quel gatto, magari offrendogli un croccanti o una coccola, qualcosa di meglio, se riuscissimo a offrire qualcosa di più, insomma, non sarebbe forse possibile uscire dalla stasi e rompere le abitudini? Penso proprio di sì. Manca spesso il coraggio e la tenacia e la costanza, ma è una realtà possibile.
Accolgo l’invito dell’autrice e, soprattutto, di Anna Copertino a non arrendersi e decidere di ricominciare; sceglierlo, cioè non farlo così per caso, ma consapevolmente chiedersi di andare oltre. Non un annientamento del passato, non un fare finta di nulla, non una regressione di quanto può aver condotto fin qui ma riconoscere di potersi dare una speranza. La speranza è attesa attiva, costruire la speranza significa darle un nome, un volto e scegliere nuovamente di esistere.
Vivere le proprie esperienze fino in fondo, anche se talvolta lasciano un retrogusto un po’ amaro, ricordare sempre che anche nelle cadute e negli errori c’è la possibilità di rialzarsi e che le porte non si chiudono mai completamente se si è disposti a capire qualcosa di più di sé. Considerare che perdonare non è mai cosa semplice, che è come scalare la vetta di una montagna, consapevoli che si può cadere, scivolare, imbrigliarsi tra i rovi, desiderare fortemente di tornare indietro. Solo sulla vetta, infatti, c’è ristoro al proprio sforzo e meraviglia e stupore per quanto si è riusciti a compiere. Fissare in mente che chiedere perdono impegna se stessi e l’altro verso una rotta nuova e che le stesse deviazioni possono fare desistere dall’impresa, volare alto, sempre e comunque, anche se in solitudine, senza dover mai avere vergogna di tenere la testa alta e di fissare il proprio sguardo in quello dell’altro.