Una mamma su tre pensa di lasciare il lavoro se continua la didattica a distanza

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Le dichiarazioni della professoressa Giulia Pastori, a capo del team che ha realizzato un’indagine sulla didattica a distanza a cui bambini sono stati costretti durante il lockdown

I quesiti sono arrivati a 7mila nuclei familiari formati da adulti con figli minorenni: solo un genitore avrebbe dovuto rispondere, ma a farlo per il 94% sono state le donne “e già questo la dice lunga sul fatto che la cura dei figli in Italia sia ancora completamente femminile”. Lo spiega all’AGI la professoressa Giulia Pastori, pedagogista dell’università Bicocca di Milano, a capo del team che ha realizzato un’indagine sulla didattica a distanza a cui bambini e ragazzi sono stati costretti durante il lockdown.

Il punto di vista che ne è emerso è quello delle mamme, un po’ perché sono state praticamente soltanto loro ad occuparsi dei figli, e un po’ perché il focus della ricerca era proprio quello di mettere in luce la ricaduta sociale della didattica a distanza. E i risultati sono stati sconvolgenti: “Il 65% delle madri ritiene che la didattica a distanza non sia compatibile con il lavoro”, quindi, alla domanda diretta se abbinano valutato di lasciare l’occupazione nel caso che i bambini non ritornino in aula al completo a settembre “oltre il 30% risponde chiaramente di sì”.

Quante ore al giorno dedicate ai figli

Secondo Pastori, pur comprendendo la difficoltà dei provvedimenti presi in emergenza Covid, “si è ragionato troppo poco sull’importanza dell’apertura delle scuole dal punto di vista della tenuta sociale e del lavoro femminile” e si rischia di fare lo stesso errore in vista del nuovo anno scolastico e nel caso di una seconda ondata. Durante il lockdown, infatti, le mamme dedicavano in media “4 ore al giorno ad aiutare i figli: praticamente un secondo lavoro part-time che si aggiunge a quello vero e alla cura della casa”.

A rispondere alla ricerca sono state donne per il 98% di nazionalità italiana e con almeno un diploma superiore (41%), mentre il 38% ha una laurea, e il 15% anche un master post laurea; le intervistate si trovano mediamente in condizioni di relativo benessere e abitano soprattutto al Nord. Il 67% di loro ha continuato a lavorare dall’8 marzo in modalità smart-working, e il 62% lo ha fatto avendo un lavoro dipendente (il 18% erano partite Iva e il 4% circa ha anche affrontato la cassa integrazione). Si tratta di madri mediamente di 42 anni che hanno 1.4 figli, in linea con il dato nazionale: per la maggioranza bambini da scuola elementare: 2855 su 7mila.

Come è messa l’Italia in confronto all’Europa?

Brutta, inefficace, difficile, demotivante, spiacevole, impossibile: sono tutti gli aggettivi che le mamme hanno dedicato alla Dad, senza mai riuscire a mettere la crocetta su un attributo positivo. Ed è per questo che anche nelle risposte aperte hanno lanciato un grido d’allarme: “Alcune donne sono riuscite ad ironizzare sulle acrobazie quotidiane della gestione della famiglia con lo smart-working, che peraltro annulla i confini tra la vita privata e quella lavorativa e non concede orari. Altre hanno ammesso la difficoltà di tenere insieme tutti pezzi. Ma tutte avvertono: la chiusura della scuola non può essere l’unica soluzione anche in caso di seconda ondata o ne va della tenuta delle famiglie e del Paese”.

La situazione italiana – commenta inoltre Pastori – “non ha paragoni col resto d’Europa: solo in Italia la chiusura è stata completa, per tutti gli istituti e fino a fine anno scolastico. Questo dovrebbe farci riflettere”.

Le richieste delle mamme in caso di seconda ondata

Per il nuovo anno la prima preoccupazione delle mamme sono le strutture e le infrastrutture: non tutte sono convinte che nei plessi dei figli ci siano gli spazi adeguati o si riesca a ricavarli, per mantenere il distanziamento sociale. Subito dopo c’è il protocollo di igiene e la propensione dei figli a seguirlo. Infine “la preparazione tecnologica delle scuole e la formazione degli insegnanti“.

Anche in questo non siamo messi bene al confronto con il resto d’Europa: “Le strutture sono ridotte all’osso, e questo porta con sé una concezione didattica e pedagogica vecchia. In una precedente ricerca – illustra ancora Pastori – avevamo chiesto a 450 ragazzi venuti a studiare nel nostro Paese come trovassero il loro plesso: praticamente tutti si sono detti insoddisfatti e stupiti che una nazione così bella avesse scuole così brutte, piccole, sporche e noiose, prive di palestre e spazi aperti”.

Il grande assente nel periodo del lockdown secondo la ricercatrice – che ha lavorato con una squadra di psicologi del lavoro e dell’educazione – è stato “il malessere dei bambini, ma soprattutto dei ragazzi: si pensa che soprattutto quelli del liceo abbiano affrontato meglio la situazione, ma in realtà proprio loro soffrono l’assenza di vita sociale, perché sono in una fase della vita in cui hanno voglia di immergersi nel mondo”.

Durante il confinamento sono aumentati nei ragazzi la scarsa concentrazione e la noia, i sentimenti malinconici, di solitudine e di rabbia”. Ancora una volta a farne le spese sono state le madri, improvvisate psicologhe oltre che insegnanti, e in difficoltà a gestire i figli a casa per tante ore al giorno: “La frustrazione è dilagata anche in loro, mentre parallelamente nei figli aumentavano la dipendenza e il bisogno d’aiuto”.

Rinforzate la scuola. La chiusura sia ‘l’extrema ratio’: non cerchiamo di risolvere tutto gettando il peso sulle spalle delle famiglie e soprattutto delle donne” è dunque l’appello finale che emerge dall’indagine.