Il pensiero di Maurizio de Giovanni in merito alla definizione di “pennivendolo”.
“Non che sia il momento di mettersi a scrivere un post di paturnie personali, con tutto quello che sta succedendo in giro per il mondo. Ma siccome una bacheca è una bacheca, e serve anche per comunicare stati d’animo con gli amici, eccomi qui a raccontare qualche pensiero sparso sulla mia attività. Peraltro indico preventivamente l’argomento, così chi ha di meglio da fare (tutti, spero) può tranquillamente continuare il proprio cazzeggio social omettendo la lettura”. Così lo scrittore napoletano Maurizio de Giovanni sul suo profilo Facebook.
“Dunque, mi sono successe due cose – prosegue -. La prima: ho cominciato, e sono nel pieno, la scrittura del prossimo romanzo. Si chiamerà “Angeli per i Bastardi di Pizzofalcone”. La seconda: un amico mi ha raccontato un aneddoto che mi riguarda indirettamente. Cominciamo da questa seconda cosa. Durante una presentazione in una località di vacanze estive, uno scrittore è stato interrogato in merito ai programmi futuri e ha risposto di essere solleticato dallo scrivere una serie. La persona che gli aveva fatto la domanda ha chiesto: come per esempio Maurizio de Giovanni? L’altro, indignato dall’accostamento, ha detto ah, no, io non sono un pennivendolo. Questa cosa, lungi dall’offendermi, mi ha portato a qualche riflessione. Io scrivo per raccontare le mie storie. Non ho ambizioni di entrare nella storia della letteratura italiana, né di vincere premi letterari importanti, né di riempire pagine di colte critiche letterarie nelle principali riviste, né di essere oggetto di lezioni universitarie, né di passare alla posterità. So benissimo di non essere all’altezza di questi obiettivi, e nemmeno mi cimento. Io non sono quel tipo di scrittore, e non voglio immaginare di esserlo. Non lo sono mai stato, da quando ho cominciato a scrivere: non saranno le copie vendute a convincermi di poterlo diventare. Racconto le mie storie perché mi piace farlo, e scrivo serie per due motivi: il primo è che mi affeziono ai personaggi, il secondo (e principale) è perché alla gente piacciono queste storie e finora ne ha richieste ancora, e ancora, e ancora”.
“Qui scatta la questione del pennivendolo. E’ un lavoro, sapete. Un lavoro.
Ci si prepara, si costruisce, si fanno ricerche. Si strutturano e si destrutturano trame, si parla con persone, si chiedono consulenze. Un romanzo nero, almeno per me, non è e nemmeno può essere un bel flusso ininterrotto di coscienza, un accavallarsi di emozioni e di sentimenti. C’è una storia, anzi ci sono molte storie, che si devono svolgere secondo una linea immaginata con precisione e con la massima attenzione per restare comprensibile e chiara ma nel contempo appassionare e coinvolgere chi legge.
Questo non significa, ed è qui che subentra il romanzo che sto scrivendo, che l’autore non sia sinceramente appassionato e convolto a sua volta, anzi direi che sarebbe impossibile immaginare di poter portare i lettori nella storia se non si è in prima persona innamorati e commossi dai personaggi e dalle loro situazioni.
Il pennivendolo racconta molte storie, sì. Non è una colpa né un marchio d’infamia se le persone leggono, guardano il teatro e la TV, comprano i fumetti. I cantastorie, meravigliose antiche figure che dovrebbero restare esempio per tutti noi, giravano per paesi e città esponendo cartelli con scene dipinte e raccontando a voce alta con profonda personale emozione, e però vivevano di questo mestiere”.
“Ora, se questo pennivendolo avesse avuto il guadagno personale come prima necessità (e nulla ci sarebbe di male, come ben sa chi ogni mattina si veste e va sul proprio posto di lavoro pensando che andrebbe volentieri altrove, invece) avrebbe semplicemente continuato a scrivere le storie di Ricciardi. Che, vi assicuro, gli avrebbero reso singolarmente quanto altri due romanzi con personaggi differenti. Ma quella storia richiedeva una pausa, e il pennivendolo sa bene che per prima cosa il rispetto è dovuto ai personaggi e alle loro vite, perché sono reali e perché è dalla loro forza vitale viene tutto il resto. Quindi il pennivendolo sa bene che non si può decidere a tavolino “adesso scrivo una serie”, come il bravo collega ha detto al suo pubblico. Sono le serie che decidono di essere scritte, piuttosto.
E decidono anche quando e se fermarsi”.
“Tutto questo per dire che sì, scrivo per essere letto. E più gente mi legge, più sono felice perché è per questo che i cantastorie giravano di paese in paese, e il mio Maestro Andrea mi diceva sempre che tutto quello che facciamo vale meno che sedersi sul bordo della fontana nella piazza principale e raccontare una storia, e poi girare con la coppola, bere un bicchiere e sedersi a raccontarne un’altra.
La storia della letteratura italiana non ha bisogno del sottoscritto pennivendolo, d’accordo. Ma se non c’è nessuno ad ascoltare, che senso ha raccontare?
Grazie per avermi letto fin qui. Ora devo tornare dai miei ragazzi, che premono per tornare a vivere.
Un abbraccio a tutti, da un pennivendolo – conclude – assai poco pentito”.