di Giuliana Gugliotti
Nelle Argonautiche un esercito composto dagli eroi greci compie una spedizione nella sconosciuta e lontana terra della Colchide per impossessarsi del famigerato vello d’oro. Qui, i condottieri riescono nell’impresa grazie all’aiuto di una giovane donna, che, per amore di uno dei sovrani ellenici, tradisce il suo regno, la sua famiglia e la sua patria, rinnegando definitivamente se stessa. Nasce così la tragica storia di Medea, forse una delle leggende più note dell’antica mitologia greca, che oggi rivive grazie alla sublime interpretazione di Maria Paiato nel riadattamento della tragedia di Seneca di Pier Paolo Sepe e Francesca Manieri.
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Questa Medea, più arrabbiata e irosa di quella di Euripide, è una “furia dolorante“, madre e simbolo di tutti gli oppressi, che incarna, nella visione degli autori, la lotta senza fine tra colonizzatori e colonizzati, oppressori e oppressi, vincitori e vinti. E’ uno scontro tra civiltà, quello rappresentato da Sepe e Manieri, che dopo il debutto al Piccolo di Milano arriva al Teatro Nuovo di Napoli, in scena fino al 1° dicembre, e che racconta una storia che si ripete, immutata, nei secoli dei secoli.
Nella suggestiva ambientazione di una fabbrica in disarmo, dove al centro della scena troneggia uno stemma gigantesco degli Stati Uniti d’America, gli elementi epici della vicenda assumono i contorni della modernità, l’antica guerra di colonizzazione dell’Ellade si trasforma nella più recente e sanguinosa battaglia per l’imperialismo contemporaneo dell’Occidente. Un parallelismo che gli autori hanno sentito fortemente vivo, e che hanno voluto rappresentare innestando nel testo classico della tragedia di Seneca citazioni che raccontano altri scempi, dalla questione cubana alla vergogna delle carceri di Guantánamo.
Su questo substrato Medea si muove, accecata da una furia senza volto né nome, aleggiando come uno spettro maligno sul destino di Corinto e dei suoi abitanti, nelle ore che precedono la sua ignominiosa vendetta. Ad accompagnarla fino al tragico epilogo i personaggi che popolano questo dramma: Giasone (Max Malatesta), costretto dal suo status a sposare la greca Creusa, l’impietoso Creonte (Orlando Cinque), re di Corinto e padre di Creusa, il corifeo rock in occhiali da sole (Diego Sepe) e la nutrice bambina (Giulia Galiani). Tutti tenteranno di dissuadere Medea dall’attuare i suoi propositi di vendetta rassegnandosi all’esilio, ma senza successo. A prevalere infine saranno l’odio, la rabbia, la vergogna dell’orgoglio calpestato, della sconfitta subita: Medea, l’infida, la vendicatrice, la straniera, compirà l’estremo gesto sacrificale immolando i suoi figli sull’altare del proprio rancore.
Una moderna kamikaze che, come afferma Pier Paolo Sepe, più di ogni altro personaggio riesce a raccontare cosa sia “reagire al sopruso, all’offesa, alla mortificazione. Per quanto ingiustificabile, la morte dei figli di Medea rappresenta l’impossibilità del meticciato, della convivenza pacifica tra culture, popoli religioni. Medea mi ha spiegato cosa sia l’assoluta assenza di rispetto e riguardo per l’altro, e questa credo che sia la colpa più drammatica dell’Occidente; per quanto sia orribile e ingiustificata la reazione, Medea mi ha fatto capire come sia possibile ingenerare quella rabbia che diventa odio, morte e distruzione“.
25 novembre 2013