23 novembre 1980.
Una domenica come tante.
L’ora? Le 19:34.
Poi intensità 6,9 di magnitudo della scala Richter.
Per 90 interminabili secondi…
40 anni sono trascorsi…
Io di anni ne avevo 14 e non avevo mai vissuto qualcosa di così devastante in tutti i sensi.
Furono 280.000 gli sfollati, 9000 i feriti e 2.914 i morti.
Interi paesi cancellati. Macerie e grida di dolore, di disperazione…
40 anni fa quel titolo di Carlo Franco, su Il Mattino, fu emblema della cattiva organizzazione che l’Italia ci avrebbe mostrato.
Fate presto, intitolava.
Lo si leggeva ed era come un grido.
Significava aiuto, declinato in ogni sua forma.
Ma niente venne fatto, ne presto e ne bene.
Si divenne sopravvissuti e vittime, insieme, della malapolitica, della disonestà intellettuale, degli sciacalli, delle zone grigie e dei colletti bianchi che sempre sono esistiti.
Soprattutto fu chiara la predisposizione alla connivenza con la camorra, che risultò essere l’unica pronta all’emergenza del terremoto e del dopo terremoto.
L’unica capace di risolvere assicurando guadagni a moltissimi e sopratutto a se stessa. L’unica preparata a far fronte a quella catastrofe. Chi non volle sedersi a quel tavolo organizzato dalla camorra, trovò la morte, come il compianto sindaco di Pagani, l’avvocato Marcello Torre. Uomo onesto. Morì sognando la libertà per la sua Pagani e per l’Italia tutta.
Tanti altri, come Lui, non vollero connivere, ribellandosi e denunciando consapevoli che essere scampati al terremoto, non significava sopravvivere al no detti ai camorristi.
No, quelle immagini non sono mai andate via, ne dagli occhi ne dalla mente.
Quelle immagini di macerie e corpi, di braccia e mani, che come fiori, uscivano da cumuli che un tempo erano case, e la disperazione negli occhi e sui volti di chi rovistando e scavando con le mani nude sperando di ritrovare vivo un familiare… o chi, salva la famiglia, sperava di recuperare una foto, una tazza, una qualsiasi cosa che potesse essere quel talismano per rinascere e sperare che non tutto era finito, sepolto sotto una montagna di detriti di mattoni, travi, ringhiere, mobili e famiglie intere.
Sopra le macerie e sotto uomini, donne e bambini.
Sotto quelle case le avevano costruito con le loro mani, con il sudore della loro vita, semplice, umile ma vita.
I ricordi sono nitidi e precisi.
La memoria non si cancella.
I miei ricordi di quattordicenne, non sono mai andati via.
Ignara di cosa potesse essere quel boato, il rumore delle mura che sembrano sgretolarsi, dei vetri che si rompono, gli oggetti che dai mobili cadono sui pavimenti, l’abbraccio rassicurante di mio padre. Il volto di mia madre, a dirmi che andava tutto bene. Di stare tranquilla.
Mentre le grida di tutti scuotono il cervello e cerchi di capire se è scoppiata una nuova guerra, o cosa possa mai essere ciò che sta accadendo, perché, il terremoto, anche se lo hai studiato a scuola a viverlo è tutt’altra storia.
Il terremoto entra nella vita.
Spesso la toglie.
Non si può dimenticare.
Quella che fu la più grande paura e il senso di fragilità, di precarietà che persone e cose hanno, non la dimentichi.
La vita di tantissimi cambiò da quel 23 novembre 1980.
Poco distante dalla casa di una mia zia, il terremoto fece 52 vittime, erano nell’unico stabile che crollò a Via Stadera.
Tra quelle vittime qualcuno lo conoscevo. Ci avevo giocato, scherzato. 10 piani venuti giù come una torre di sabbia. Di chi la colpa? Con chi prendersela?
Nel quartiere di Fuorigrotta crollò una parte dello Sferisterio. Il palazzetto dove si giocava la pelota. Per fortuna nessun morto.
Non vi era più un tetto, ne il cornicione. Restarono le mura e una parte di soffitto. E gli alberi, le piante che lo adornavano. Loro restarono intatte. Anzi, oggi, a distanza di 40 anni sono loro che ancora lo circondano insieme a delle transenne e travi, ormai arrugginite, messe in attesa di lavori che non sono mai stati realizzati.
40 anni e nessuna amministrazione che abbia sanato quello e tanti altri scempi che il terremoto della natura prima, e quello dell’uomo dopo ha fatto.
Forse ignari che non sono questi i resti che possono essere di monito affinché non ci siano altri 23 novembre in Irpinia, a L’Aquila, a Accumoli, a Amatrice, a Norcia o altrove.
La memoria serve a non dimenticare. Serve ad amare, ad essere onesti.
Serve a chi non è più, ma soprattutto a chi ancora è. Io mi ricordo, si io mi ricordo il 23 novembre 1980.
Se potete, fate presto, che non è mai troppo tardi…
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