Nel solo primo trimestre di quest’anno, nel nostro Paese ci sono stati ben 185 morti sul lavoro. Gli ultimi due sono stati Luana D’Orazio, 22 anni, operaia apprendista, e Christian Martinelli, 49 anni, operaio in una fabbrica di macchinari per la plastica a Busto Arsizio. Tutti e due hanno perso la vita in modo orrendo, risucchiati dalle macchine industriali presso le quali stavano lavorando.
I morti sul lavoro di solito non sono che numeri, nell’ immaginario collettivo, non persone in carne e ossa, non volti, non vite, affetti, speranze, cari che li aspettano a casa.
I morti sul lavoro, e per il lavoro, sono statistiche da compilare, numeri, perdono la dimensione umana, il dramma lacerante che costituisce ognuno di loro.
Un morto sul lavoro, nel migliore dei casi, è una notizia di un giorno e, di fatto, viene considerato “un effetto collaterale” della economia che deve andare avanti, costi quel che costi.
Se paragoniamo la nostra attenzione a cose decisamente più futili a quella che, invece, rivolgiamo alle notizie di lavoratrici e lavoratori che perdono troppo frequentemente la vita, o rimangono seriamente feriti nel posto dove lavorano, abbiamo la cifra di quanto, come comunità nazionale, badiamo a queste persone.
La sicurezza dei posti di lavoro, per il numero enorme di casi non garantita che abbiamo di fronte, non può rimanere confinata, nel migliore dei casi, in una dialettica sindacale aziendale.
Deve diventare una questione che va affrontata con decisione da parte di tutti i soggetti coinvolti, a partire dai mass media che dovrebbero dare maggiore risalto a tutto ciò, e anche in questo ambito, riscoprire un giornalismo d’inchiesta che provi a illuminare quanto più possibile cosa succede nelle aziende e se queste adempiono adeguatamente a quanto previsto per la sicurezza dei lavoratori.
Fin troppo spesso le aziende, al fine di ridurre i costi, badano poco o nulla alla sicurezza. Credo che le vittime del lavoro siano l’ esito di una concezione economica secondo la quale il lavoro è una merce, e come tale, deve avere il minor costo possibile.
I rapporti di forza all’ interno delle fabbriche che da almeno quaranta anni a questa parte sono a favore della imprenditoria, hanno determinato anche una minore tutela dei lavoratori, soprattutto nella piccola e media impresa. Una imprenditoria che non ha mai avuto con i processi di globalizzazione, in ordine ai problemi relativi alla concorrenza, la capacità di fare rete per meglio sostenere la presenza sul mercato globale, trovando più comodo per raggiungere tale scopo la riduzione del costo del lavoro e relativi costi inerenti alla sicurezza di chi lavora in azienda.
Se guardiamo bene tale situazione, anche questa è una tipica situazione di disumanizzazione delle relazioni umane, in particolare delle relazioni sui luoghi di lavoro che si caratterizzano per la perdita di solidarietà tra i lavoratori, che temono di perdere il proprio posto di lavoro, ma anche di non solidarietà tra aziende e lavoratori, o quanto meno di assenza di sane e moderne relazioni sindacali, in considerazione del fatto che un lavoratore che lavora con tranquillità non può non fare che bene anche per l’ azienda.
Ecco perché il problema della formazione è fondamentale. In ogni luogo di lavoro, e in ognuno dei quali, deve essere sempre presente un rappresentante per la sicurezza. Una figura rappresentativa che va ancora più rafforzata, in un ambito nel quale va rivista la gerarchia dei valori: la vita umana, la centralità delle persone, la dignità del lavoro.
Non è mica un caso che nostra Costituzione definisce l’ Italia come fondata sul lavoro. Potrà apparire retorico, ma è attraverso il lavoro ovvero attraverso la tutela dei lavoratori che è avvenuto il processo di modernizzazione del nostro Paese dal secondo dopoguerra.
Il mero raggiungimento del profitto, oltre a essere non giusto, è di fatto dannoso per il Paese, perché è il costruire una cultura della sicurezza nel mondo del lavoro che è foriero di una evoluzione, di un progresso sostanziale del Paese, tenuto conto che l’ iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’ utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
In tal senso, credo che la prima cosa da fare è rafforzare quantitativamente e qualitativamente tutti gli Organismi Istituzionali deputati al controllo delle norme in materia di sicurezza, e a questo è fortemente intrecciata la necessaria emersione delle attività “in nero” che costituiscono una causa non marginale degli infortuni sul lavoro.
Insomma, occorre risvegliare le coscienze su questo annoso problema, e non ricordarsene solo sulla momentanea onda emozionale che dura qualche ora.
Occorre dare continuità in termini sia di attenzione, di indignazione, di proteste, di richieste, ma anche di incisivi interventi istituzionali ad ogni livello.
Non dimentichiamo che uno dei maggiori indicatori di civiltà di un Paese è quello di come garantiamo la vita di chi lavora, e con 185 morti in tre mesi, non siamo messi certamente bene in termini di civiltà. (L’inconsistenza del nuovismo).
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