Pena di morte e cultura della vita

0
22
Pena di morte e cultura della vita

In un panorama internazionale segnato quotidianamente da conflitti, violenze, atti aggressivi e/o terroristici- come in una notte oscura di cui non si intravvede il termine – brilla come una luce preziosa una piccola notizia di qualche giorno fa, sottaciuta per lo più dai grandi media. Si tratta dell’abolizione – a distanza di quasi 20 anni dall’ultima esecuzione – della pena di morte in Zimbawe un piccolo stato di quell’Africa tanto dimenticata dall’occidente invecchiato e miope nella sua autoreferenzialità.

Scriveva Victor Hugo “Ovunque viene comminata la pena di morte, domina la barbarie; ovunque la pena di morte è sconfitta, la civiltà prevale

Lo Zimbawe ex colonia britannica, poi segnato da un regime molto simile a quello dell’apartheid sudafricano, e quindi dagli anni ’80 stato indipendente sotto la guida del Presidente Mugabe, dopo un primo periodo di sviluppo ha vissuto una seconda difficile fase caratterizzata dall’estrema diffusione dell’AIDS; ma anche da violenze e violazioni dei diritti umani, con un clima pesante e trasversale di contrapposizione ed odio.

Lo stesso attuale presidente Emmerson Mnangagwa, che ha promulgato la legge di definitiva abolizione della pena di morte dall’ordinamento dello stato, ancora giovanissimo durante la guerra d’indipendenza dello Zimbabwe negli anni ’60, era stato arrestato, torturato e quindi condannato a morte (pena successivamente commutata in 10 anni di carcere a causa della sua giovane età).

Tante agenzie internazionali – dall’Ue, a Sant’Egidio, ad Amnesty International – hanno salutato entusiasticamente l’ingresso dello Zimbawe, ultimo arrivato nel consesso dei 124 Stati che hanno abolito la pena di morte – erano solo 98, alla fine del 2014 – contro i 48 in cui è ancora legale e i 28 in cui è abolita di fatto o in cui c’è una moratoria in atto. E tutti hanno ricordato come la pena di morte, l’uso della violenza addirittura di uno Stato contro un singolo – spesso discriminatoria nei confronti dei più poveri e dei più fragili, come disabili e minori, sia una punizione crudele, disumana e degradante.

Ma il trend che ha portato a capovolgere la situazione dei Paesi abolizionisti passati in pochi anni dall’ essere una minoranza agli attuali numeri, sembra irreversibile. E il fronte dell’opinione pubblica internazionale si dirige progressivamente verso l’abolizione di una pratica ingiusta e disumana che pure sembrava impossibile da abolire dall’ordinamento internazionale, come la tratta degli schiavi e la condizione di schiavitù.

Due recenti eventi segnano significativamente questo nuovo percorso di civiltà.

La recente commutazione negli USA di 37 pene capitali in carcere a vita da parte del Presidente Biden – che pure nel 1994 aveva presentato una legge anticrimine che conteneva la pena di morte – esprime la possibilità di cambiare idea su un tema così delicato come la sacralità della vita umana, e indica una via alternativa per ridurre la violenza, che non passi per logiche di ritorsione e cultura della morte.

La votazione dell’Assemblea Generale dell’ONU il 17 Dicembre scorso a favore della moratoria della pena di morte, che ha visto 130 Paesi favorevoli, 22 astenuti e 32 contrari, ha espresso una nuova e chiara volontà da parte della comunità internazionale di voltare pagina sulla pena capitale attraverso una cultura della vita.

L’analogia di questo tema con la cultura di morte insita in tante guerre in corso e in tante quotidiane manifestazioni di odio e violenza che rendono torbidi il clima e il cuore delle persone, porta a chiedersi come superare questa stagione in cui domina la forza.

Come ha scritto alla vigilia di Natale Mario Marazziti su “Avvenire” a proposito dei recenti progressi nella battaglia contro la pena di morte: “E’ un ragionamento che vale, varrebbe anche nelle guerre: l’unica via di guarigione è meno violenza”.

Una strada difficile e complessa, ma possibile.