Ci sono esperienze troppo preziose perché possano andare distrutte. In questi casi la memoria si fa urgente e non può rimanere inascoltata. Sono di questa specie le relazioni di Gabriella Fiori e di Margherita Pieracci Harwell con Simone Weil e Cristina Campo; e appartiene a questa medesima specie la relazione di amicizia e di scambio fecondo tra la curatrice di questo volume e le due grandi studiose e testimoni d’eccezione.
Non è da tutti la loro intransigenza filologica, così come il carisma letterario e la forza empatica. Qualcuno/a doveva documentare la preziosità di questo patrimonio, al di là dei riconoscimenti acquisiti e della rilevanza consolidata della bibliografia. Ma da quale punto di vista? Bisognava scegliere un’angolazione per raccogliere e trasmettere. Come suggerisce Lucia Stefanelli nella sua illuminante Postfazione, il lavoro di Esther Basile si colloca precisamente nella “intersezione” tra i fili che collegano gli studi di Gabriella e Margherita alle vite delle due grandi protagoniste del pensiero europeo del Novecento.Ne scaturisce un racconto tessuto instancabilmente per anni nello sforzo di recuperare ogni frammento di pensiero e di vissuto di Simone e di Cristina al fine di comporne il ritratto via via più completo e più limpido.
Non sarà stato facile selezionare nella ricchezza del materiale raccolto «i punti di riferimento perenni e sostanziali», ma è proprio questa l’operazione svolta dalla curatrice, che ci introduce e ci guida in una lettura o rilettura, attraverso una «scelta etica» che è anche un modello di alta divulgazione. Coerente in ciò con un disegno perseguito da tempo, in cui si annoverano suoi precedenti libri dedicati ad altre figure – Anna Maria Ortese, Pier Paolo Pasolini, Gerardo Marotta, Oriana Fallaci – di cui ci ha offerto la possibilità di una conoscenza autentica, al di là di immagini stereotipate e di durevoli luoghi comuni. Nella Prefazione, Elio Pecora interpreta questo «itinerario» come un viaggio «alla ricerca di un’etica ritrovata nel pensiero e nell’agire di alcune donne e di alcuni uomini, che a una tale ricerca si sono interamente dedicati».
Ecco perché il libro, nato da conversazioni e «interviste ripetute negli anni», arricchito di documenti e testimonianze, costituisce per chi lo legge non solo «un bene, ma prima ancora un nutrimento» – secondo la felice espressione del poeta.
Il tema del nutrimento ritorna spesso tra le pagine dell’opera e ne rappresenta uno dei fili conduttori, connesso ad esperienze come la lettura, la scrittura, la sacralità della parola, l’amicizia, il dialogo, la poesia, la libertà, la verità, la bellezza, la perfezione, l’attenzione…
Valga d’esempio il modo di concepire e lodare la lettura da parte di Margherita Pieracci Harwell: «Se cerco di definire il mio rapporto con la letteratura non vi trovo momento più essenziale del leggere. […] Si legge, come si scrive, perché la vita ci va stretta, coi suoi limiti – forse qualcuno pensa perciò che la letteratura sia un’evasione. Ma ci va stretta la vita quando non ne cogliamo abbastanza la densità, lo spessore – quella “seconda realtà” a cui alludono Leopardi o la Ortese – quindi si legge per veder più e meglio, e per capire il senso» (p. 181).
È difficile presentare questo libro sinteticamente o esporlo ordinatamente: esso si presta vocazionalmente alla citazione, fatto com’è sostanzialmente di richiami. Ad essere rievocati non sono soltanto i saggi, gli articoli, le lettere, le fonti dirette, cioè le opere di Cristina Campo e di Simone Weil, ma anche le atmosfere – quelle di Parigi, Roma, Firenze e altri luoghi di elezione. Non basta: si respira a volte l’aria delle case (abitazioni del passato o del presente) con tutta la pregnanza simbolica che si sprigiona da ogni angolo e da ogni oggetto. Esther Basile ci comunica il fascino da cui è stata colpita, entrando in casa di Margherita a Vitolini: «Ecco che arrivammo nella sua Vitolini, un paese collocato in prossimità di Vinci. Lei vive in una casa in cui siamo state spesso ricevute in lunghi pomeriggi e dove abbiamo potuto vedere i suoi libri e godere della sua atmosfera. […] Nelsuo soggiorno-salotto ci sono mobili antichi di fine ’800, alcuni sono costruiti da falegnami di Vitolini che sapevano curvare il legno per la costruzione delle botti…» (p. 15-16). È qui che Esther Basile riceve l’epistolario tra Margherita e la Ortese, ora conservato presso l’Archivo di Stato di Napoli. Un dono, una passione condivisa, quella per la Ortese, suggellano l’amicizia profonda tra Esther e Margherita. Ha inizio così il racconto di quest’ultima, carico di ricordi e di riflessioni sul passato, un’ermeneutica continua di ciò che la memoria ha saputo custodire e sottrarre all’oblio. Il lavorìo sulla memoria è al centro delle interviste e possiamo osservarlo e coglierlo nel suo farsi. Ripensando a Cristina, si sofferma con queste parole: «La nostra fu un’amicizia straordinaria […] la nostra amicizia si basava sul sorriso. Avevamo lo stesso senso dell’umorismo […] tendo a considerare la storia di questa amicizia con una grande intensità, intatta e privata […] Le stagioni della vita determinano la scansioni in cui il campo della nostra intimità si fonde con l’adesione all’altro…» (pp. 29-31). Riferendosi alla madre di Simone, ne tratteggia un profilo nel quale forse s’identifica: «Mme Weil apparteneva alla forma più alta di limpidezza e l’impegno ultimo della sua esistenza fu di recuperare le carte di Simone. Le date, gli scritti, gli appunti di memoria hanno riempito la sua vita» (p.31).
La chiave del libro, l’istanza che lo ha portato a concretizzarsi nella sua forma particolare si rivelano nelle parole di Esther Basile, quando scrive: «nel salutare Margherita mi convinsi che il momento emozionale e insieme fantastico andava rivissuto. Volevo assolutamente conoscere i suoi transiti e volevo capire come le nostre passioni culturali ci indicano l’essenza delle cose. Il gioco creativo in fondo è alla base di incontri speciali dove la voce lancia messaggi. Mi sembra che ogni nostro discorso riportasse alla fragilità degli esseri e che l’umanesimo fosse una via per sciogliere i dubbi della nostra epoca» (p. 34).
Entriamo ora nella casa di Gabriella Fiori, a Firenze. «Qui mi colpirono molte cose: le sue librerie, la sua poltrona preferita, un cassettone del ’600 semiaperto, che naturalmente era appartenuto alla madre, un quadro di Edipo sempre del ’600, dei bellissimi dipinti intorno, ma soprattutto la sua passione per Simone Weil» (p. 53). Singolare questa presenza della passione per la Weil tra gli oggetti descritti, come se di essa fossero impregnate le pareti e le cose.
Anche con Gabriella si stabilisce una consuetudine di conversazioni, che si svolgono in un lungo arco di tempo, dal 2010 al 2018, e che prendono avvio dalla comune frequentazione di Anna Maria Ortese – in particolare la lettura da parte di Esther del libro della Fiori, Anna Maria Ortese o dell’indipendenza poetica, per approdare a Simone Weil.
Il discorso di Gabriella Fiori si presenta fin da subito carico di d’insegnamenti e di avvertenze puntuali. La prima: «Bisogna sapersi abbandonare alla scrittura e curare la propria biblioteca» (p. 54). Un’altra indicazione riguarda la qualità che la lettura dei testi e delle fonti deve avere per poter dare dei frutti di conoscenza. Riporta Esther Basile: «Ci parlò anche di una lettura per “contatto”: lo stare a contatto con l’autrice e interrogarsi sempre, ognuna di noi sulla propria vita, chiedersi che soggetto si diventi attraverso la lettura e chi sia la donna che scrive» (p. 56). E a proposito dei corsi di scrittura, uno tra i suoi impegni costanti, chiarisce che essi sono serviti soprattutto a fare acquisire a molte donne «una coscienza di lettrice». Il suo parlare diventa una vera e propria guida quando ribadisce: «Bisogna abbandonarsi a questo impulso [della scrittura] e curare nella propria biblioteca le autrici di cui analizziamo il pensiero: nell’atto del leggere e dello scrivere si forma un’idea e ognuno di noi sperimenta la sua capacità di orientamento e giudizio» (p. 60).
Sul suo rapporto privilegiato con Simone Weil non si può fare a meno di citare ancora dalle interviste: «Simone Weil entrò come una raffica di vento e mi si impose con la forza di un desiderio irresistibile»; «ho dedicato a Simone Weil la parte migliore della vita». E racconta come avvenne la scoperta del libro di Simone – per lei decisivo – , letto dopo l’Attesa di Dio:«Il secondo libro del mio cammino weiliano fu La Pesanteur e la grâce che mi sconvolse con il suo balzare impervio sul rapporto tra essere umano e universo, la gravità e la grazia, vuoto e pieno, la necessità e l’obbedienza, la distanza fra il necessario e il bene, l’attenzione e la volontà, l’intelligenza e la grazia» (p. 65). Le tensioni e le polarità di Simone sono tutte racchiuse in questa percezione folgorante. Sappiamo, sempre grazie alla interpretazione di Gabriella Fiori, che queste tensioni del pensare e dell’agire di Simone, che si esprimevano infine nel dilemma tra lo sviluppo dei propri talenti e la mistica del servizio agli altri, si risolsero nella realizzazione del suo «genio morale». Un genio che «ha tutti gli aspetti femminili della fecondità spirituale» e che forma «il tessuto di una filosofia esclusivamente pratica e in atto», «come una esistenza multipla ai limiti della dispersione e insieme unificata da quella che può essere definita la sua colonna portante: la coerenza» (p. 89).
Riguardo al metodo che chiama«immersivo», la Fiori, a proposito del suo libro del 1981, Biografia di un pensiero, ci spiega: «Avevo sentito il bisogno di ritrovare Simone donna-persona-personaggio in un disegno più ampio e complesso. Trovare, attraverso gli scritti e le fonti, una sintesi intuitiva. Ho fondato il mio lavoro sulle testimonianze di persone che l’avevano conosciuta direttamente o dindirettamente. Le note che integrano il testo concorrono a una biografia che ha voluto essere una ricostruzione a mosaico. Volli inserire sulla copertina dei versi molto espressivi di Elsa Morante, perché Simone era stata una sua guida spirituale negli ultimi venti anni…» (p. 66).
Ancora sull’«immersione» – una esperienza che la curatrice del libro mostra non solo di condividere, ma di rivivere e di voler farci rivivere – Gabriella, ripensando al suo saggio Simone Weil. Una donna assoluta (1987), confessa: «Ho sempre considerato questo mio lavoro non come una ricerca ma come “una immersione” perché Simone Weil non potrà mai essere un oggetto di studio: è troppo viva, troppo eternamente giovane, vedo in lei una forza catalizzatrice, una corrente di energia che può attraversare la nostra vita, obbligandoci a porci delle questioni essenziali di cui la prima: quale è il senso della nostra vita?» (p. 68).
Ma non posso concludere senza richiamare l’attenzione sull’amicizia, che è il filo e la trama di questo libro nelle sue varie espressioni: amicizia dell’autrice con le preziose interlocutrici, amicizia di queste con le pensatrici da loro studiate e amate per gran parte del proprio tempo di vita e di lavoro, amicizia delle testimoni e dei testimoni.
Lo farò attraverso un’amicizia per antonomasia che è quella tra Maria Zambrano e Cristina Campo, la cui storia occupa un intero capitolo e si offre come rivelazione di sensoe chiave di lettura essenziale per l’intera opera. L’amicizia tra Maria e Cristina – ci viene detto – si nutre della consapevolezza di «appartenere a un nuovo umanesimo», che viene definito come «un percorso di attenzione al sociale e all’umano», senza ombre di esaltazione antropocentrica, ma con la consapevolezza del limite, della dipendenza reciproca tra esseri viventi, avendo «chiaro il sentimento di finitezza» (p. 112).
E. Basile (a cura di), Preziose tessitrici di parole. La scrittura di Gabriella Fiori e Margherita Pieracci Harwell, Homo scrivens, 2020
Recensione di Maria Antonietta Selvaggio.
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