di Giuseppe Parente
E’ in libreria “Quando lo Stato uccide” di Alessia Lai e Tommaso Della Longa edito da Castelvecchi, interessante libro inchiesta sulle vittime della violenza poliziesca, una ventina nell’ultimo decennio, di cui consiglio una attenta ed approfondita lettura (ndr visti i recenti episodi).
Nel libro gli autori, fanno il punto della situazione senza pregiudizi, portando a conoscenza della pubblica opinione alcuni episodi di violenza commessi dalle forze dell’ordine, anche in considerazione del fatto che le statistiche sul numero di vittime di omicidi nel nostro paese vengono continuamente aggiornate. Nella lunga lista ci sono talvolta dei nomi che passano troppo spesso inosservati, relativi a cittadini morti a causa della violenza durante un fermo in stato d’arresto.
Persone che dovrebbero aver cura di mantenere la sicurezza e che, qualche volta, finiscono per interpretare il ruolo contronatura di carnefici. Basta parlare di “colpo accidentale” o di “misure di contenimento del fermato” per ammantare di normalità queste morti e farle passare per incidenti.
Alessia Lai e Tommaso Della Longa hanno cercato di rompere questo velo di ipocrisia per ricostruire le storie di queste “fatalità”. Per farlo, nel migliore dei modi possibili, hanno ricostruito il quadro giuridico nel quale operano le forze di Polizia. Una normativa definita a maglie larghe che permette agli operatori dell’ordine di usare le armi e la forza fisica senza prestare adeguata attenzione alle possibili conseguenze dal punto di vista civile e penale. Leggi che hanno trovato la loro ragione giustificatrice nella lotta al terrorismo di matrice politica e che, in un modo o nell’altro, sono arrivate quasi intatte sino agli anni Duemila. Leggi che dovevano essere speciali, come speciale poteva essere considerato quel determinato periodo storico ed invece no.
Se il legislatore ha dimostrato una cura davvero certosina nell’evitare di mettere troppi paletti agli uomini in divisa, non ha fatto altrettanto per delineare una fattispecie di norma che punisse con efficacia eventuali comportamenti violenti dei tutori dell’ordine. Da anni, infatti numerose organizzazioni non governative lamentano la mancanza nel codice penale italiano del reato di tortura. Una norma che consentirebbe di rendere giustizia ai fermati, ai detenuti oppure ai semplici cittadini ottenendo giustizia qualora riescano a poter raccontare la loro esperienza.
La mancanza di un reato specifico costringe le Procure a perseguire gli indagati tramite altre norme giuridiche meno specifiche. Reati che in virtù delle pene edittali previste, prevedono tempi di prescrizione molto brevi, per cui basta andare in dibattimento, con l’intenzione di voler affrontare i tre gradi di giudizio, per aver ottime possibilità di evitare conseguenze.
E’ grazie ad un processo relativo a violenze contro manifestanti che l’opinione pubblica italiana ha aperto gli occhi. Parliamo dei procedimenti relativi ai disordini durante il G8 di Genova, alla cosiddetta “macelleria messicana” della scuola Diaz ed ai maltrattamenti della caserma di Bolzaneto. Fatti che hanno spinto anche il Dipartimento di Pubblica Sicurezza a cambiare il modus operandi, puntando su un maggiore e migliore addestramento degli uomini impiegati nelle manifestazioni di piazza o all’interno degli stadi. Il G8 di Genova ha reso palese alla pubblica opinione quanto era precaria la preparazioni di poliziotti e carabinieri.
Una situazione lamentata da diversi esponenti dei sindacati di polizia, intervistati dagli autori del libro per chiedere loro un parere sulla gestione dell’ordine pubblico in Italia. Parole davvero crude che tratteggiano uno scenario in cui alcune cose sono lasciate all’improvvisazione o alla buona volontà ed il buon senso del singolo.
Antonio Savino, leader dell’Unione Arma dei Carabinieri e direttore de la Rivista dell’Arma intervistato da Alessia Lai e Tommaso Della Longa, ha evidenziato come fra i Generali manchi la cultura della preparazione professionale e ci sia la malcelata tendenza a mantenere privilegi di stampo corporativo a scapito della sicurezza dei cittadini e degli stessi militari che occupano i gradini più bassi della scala gerarchica.
In attesa che la politica esca dal suo torpore, i casi di Stefano Cucchi, Gabriele Sandri e di Federico Aldrovrandi hanno finalmente aperto spiragli di giustizia. Un necessario cambio di passo in virtù della quale si possa sperare di limitare la presenza, nelle sentenze, di una formula che nasconda episodi di violenza: eccesso colposo di legittima difesa.
Si ringrazia il sito Notte Criminale