Quel che rimane è l’immagine di decine di migliaia di persone assiepate a Central Park a cantare le sue canzoni. Così in altre decine di città di tutto il mondo, a scandire “all we are saying, is give peace a chance”. In lacrime, mostrando le sue foto, accendendo candele, tenendosi per mano. Un ‘nowhere man’ aveva ucciso John Lennon, forse pensando che uccidendo il suo idolo avrebbe scrivere la parola fine all’utopia del secolo. Una di quelle immagini che finiscono immancabilmente negli almanacchi del Novecento, accanto all’attentato di Sarajevo che detta il via alla prima guerra mondiale, a Hitler e gli orrori del Terzo Reich, al ritratto di Einstein, alla bomba atomica, l’uccisione di Kennedy a Dallas, al primo uomo sulla Luna, la caduta del Muro di Berlino. Cinque colpi di pistola, con il “Giovane Holden” in mano: sembra uno scherzo del destino, ma è la morte del più visionario, del più ‘politico’ dei Beatles. Esattamente 40 anni fa, l’8 dicembre 1980.
La cronaca è degna di un romanzo di Don DeLillo. Mark David Chapman, che di mestiere fa la guardia giurata, si apposta come un fan qualsiasi all’ingresso del Dakota Building, casa Lennon, lussuoso palazzo accanto a Central Park dove nel 1968 – in un incredibile girotondo di simboli – Roman Polanski aveva girato il demoniaco ‘Rosemary’s Baby’. Alle 22.51 Chapman si avvicina a John e dice la frase che si è tenuta in serbo da chissà quanto tempo: “Ehi, mister Lennon, sta per entrare nella storia”. Poi apre il fuoco: un colpo va a vuoto, un altro attraversa l’aorta all’uomo che insieme ad altri tre ragazzi di Liverpool aveva modificato come pochi altri l’idea che il mondo aveva di sé, il suo immaginario, i suoi sogni, la sua musica. John fa ancora qualche passo e mormora: “Mi hanno sparato”.
Lennon, che aveva compiuto i 40 anni neanche due mesi prima, si accascia. Il portiere del Dakota, Jay Hastings, lo copre con la sua giacca, levandogli gli occhiali sporchi di sangue. Chapman rimane sulla scena del crimine. Tira fuori una copia del ‘Giovane Holden’ di Salinger e si mette a leggere. Non c’è bisogno di agitarsi, la storia si è già fermata, lui il suo posto se lo è conquistato: con il sangue di una leggenda.
Trasportato dai due poliziotti sulla loro macchina al Roosevelt Hospital, John Lennon viene dichiarato morto alle 23.09. Un giornalista, tale Alan Weiss, casualmente sul posto, racconta: “La radio dell’ospedale cominciò a suonare ‘All My Loving’. Quando la canzone terminò si sentì qualcuno gridare: era Yoko Ono”. Pensare che per John il 1980 era stato un anno felice. Quello della resurrezione, dopo cinque anni passati in una sorta di esilio volontario, a fare il papà di Sean, il figlio avuto con Yoko (la donna alla quale era stato ingiustamente assegnato il ruolo della ‘cattiva’ che aveva causato la fine dei Beatles), a fingere di buttarsi alle spalle una fama mondiale senza precedenti e le persecuzioni dell’Fbi – che lo riteneva un pericoloso sovversivo – a cercare una qualche normalità impossibile.
Era un anno strano, il 1980, di transizione. In Inghilterra c’era Margaret Thatcher, l’America era depressa, c’era la crisi degli ostaggi a Teheran, avevano eletto Ronald Reagan, nel mondo impazzava la disco music. Era dal 1975 che John non scriveva canzoni. Poi, improvvisamente, qualcosa cambiò. L’ha raccontato lui stesso: “Ero alle Bermuda a fare un bagno in mare insieme a mio figlio Sean. Di colpo, mentre ero lì in acqua hanno cominciato a venirmi in mente delle melodie”. John era tornato di colpo ad essere “l’imperatore dell’universo”, come lo aveva chiamato tanti anni prima Paul McCartney. Eppure i Beatles, scioltisi dieci anni prima, sembravano appartenere ad un passato ormai lontano.
L’esplosione sovversiva del punk era praticamente già acqua passata, la musica era ancora una volta alla ricerca di una nuova identità, tutta da costruire. La lotta impari con il governo degli Stati Uniti e con l’Fbi – gli avevano negato il passaporto, l’avevano espulso e poi riammesso, circolavano dispacci sulla sua pericolosità da sovversivo o giù di lì – avevano lasciato a John dei segni profondi, anche se lui l’aveva combattuta con un coraggio e una consapevolezza notevoli. Alle spalle aveva lasciato un bel po’ di musica (da quella preghiera all’incontrario che è ‘Imagine’ alla confessione di ‘Jealous Guy’, da ‘Happy Xmas’ a ‘Mind Games’, passando per ‘Working Class Hero’), ma aveva lasciato alle spalle anche una sua speciale idea di pacifismo, di politica e di condivisione che forse era riuscita a radicarsi nell’immaginario collettivo molto più di quel che pensasse. Alle Bermuda ci era andato a causa di un oracolo africano, e lì – si dice – sopravvisse ad un tremendo uragano. Improvvisamente tornano a fluire nella sua mente melodie e liriche di nuove canzoni.
È qui che cominciano a prendere forma pezzi come ‘Watching the Wheels’, ‘Woman’, ‘I’m Losing You’ e soprattutto l’incredibile ‘Just Like Starting Over’: quelle parole “è come se ci fossimo innamorati di nuovo, sarà come ricominciare daccapo” sembrano un paradosso del destino. Una resurrezione, un nuovo inizio, una nuova vita. Anche il look del quarantenne Lennon cambia: al posto dei proverbiali occhialini tondo una montatura più grossa, giacche scure al posto delle camicia colorate, foto in bianco e nero al posto del flower power anni settanta. Dopo gli anni sessanta, mai come adesso i Beatles erano così vicini e così lontani al tempo stesso.
Tornato a New York, John passa settimane e mesi in sala di registrazione. Sceglie una nuova casa discografica, la Geffen, al posto della Emi, che era stata per quasi vent’anni la sua casa. Assume alcuni dei migliori musicisti su piazza: Earl Slick alle chitarre, una gigantesca sezione fiati, il batterista Andy Newman e l’immenso Tony Levin al basso, che poi ritroveremo a fianco di Robert Fripp nella nuova formazione dei King Crimson e al fianco di un rinato Peter Gabriel. La sua ossessione era di catturare un suono fresco, diretto, onesto, come quello dei primi Fab Four. Si parlava insistentemente di organizzare un tour mondiale. Il materiale che aveva scritto era così tanto, che pensava di farne due album: ‘Double Fantasy’ e ‘Milk & Honey’, con le canzoni di John e di Yoko che dovevano ‘parlare’ le une alle altre. ‘Double Fantasy’ uscì neanche settimane prima delle pistolettate di un Chapman davanti al Dakota: manco a dirlo, è ancora oggi un classico imprescindibile.
Poi, a tradimento, arriva l’8 dicembre. “L’ultima volta che vidi John aveva quel suo incredibile sorriso sulla faccia”, racconterà il produttore Jack Douglas. L’ultima canzone a cui aveva lavorato era ‘Walking on Ice’. “Era elettrizzato, e lo era anche Yoko, perché noi tutti sapevamo di aver fatto un buon lavoro sulla canzone. Lo accompagnai fino all’ascensore e lo salutai augurandogli la buonanotte. Circa quaranta minuti dopo la mia ragazza mi raggiunse allo studio, pallidissima. L’hanno appena detto alla radio, disse. Hanno sparato a John”.
Pochi giorni dopo, il 14 dicembre, furono a milioni a rispondere all’appello lanciato da Yoko Ono di fermare ogni attività per 10 minuti di silenzio in onore all’uomo che aveva regalato loro ‘Imagine’. Mentre oltre 220mila persone si ritrovavano a Central Park e 30mila a Liverpool, mentre tutte le radio della Grande Mela, in questi 10 minuti, sospesero le trasmissioni. “Dici che sono un sognatore, ma non solo l’unico. Spero che un giorno ci raggiungerai. E il mondo sarà uno solo”, aveva cantato Lennon nove anni prima. Ora la cantavano tutti, ai quattro angoli del globo. Improvvisamente la profezia di John era diventata realtà.