Cultura

“Quel cretino del mio capo”, recensione e intervista a Renato Votta

Come già lascia intuire il titolo, “Quel cretino del mio capo“, il libro di Renato Votta da poco pubblicato da Homo Scrivens, è un moto di libertà: a quante persone piacerebbe poter gridare a squarciagola questa convinzione radicatae al tempo stesso soffocata nel profondo delproprio cuore da chissà da quanto … l’autore sembra portarecon mano il lettore, attraverso la narrazione delle sue esperienze, a condividere il suo stesso percorso di liberazione!

Oggi Renato Votta è un giornalista ed uno start upper con una lunga esperienza manageriale in multinazionali ed organizzazioni profit e no profit, ma il suo esordio nel mondo del lavoro lo fece come dipendente aziendale.

Ebbene, nonostante in un certo senso debba essere riconoscente all’esperienza di quegli anni,perché la sua negatività fu la molla che lo indusse a “svoltare”, e lo ha fatto con successo, la ricorda ancora in modo traumatico e questo libro,forse, è stato una sorta di terapia.

Ironico e divertente, “Quel cretino del mio capo” offre una lettura piacevole soprattutto per chi, magari in pensione e/o nostalgico dei tempi andati o convertito ad altra attività lavorativa, può convincersi della fortuna di essere fuori dal mondo aziendale. Nelle pagine si susseguono i racconti dei vari momenti della vita di ufficio, dai più frivoli ai più impegnativi legati tutti da un unico filo conduttore: l’ipocrisia e gli interessi personali!

Le pagine finali, inoltre, mostrano una serie di sottili test e questionari per auto-valutarsi nei vari ruoli che il lavoratore aziendale può occupare e questi tornano senz’altro utili ai più giovani per capire se quel tipo di vita è davvero consono alla propria natura. Se così non fosse, ragazzi cari, seguite l’esempio dell’autore:

guardatevi attorno e appena possibile seguite i vostri sogni che la salute del fegato pure è importante!

Leggendo il tuo libro si avverte la sofferenza che hai patito;appari una persona idealista, con notevole capacità di analisi, attratta da una qualità di vita in cui i beni economici non hanno la priorità… rivivere quest’antica e incisiva esperienza in modo ironico e divertente nella costruzione del libro ti ha aiutato a liberartene del tutto?

Sì, è stata un’esperienza liberatoria, un modo di ritrovarmi e di riaffermare me stesso e i miei valori. A volte toccarci le nostre cicatrici ci fa male, ma ci aiuta a sentirci vivi e sensibili. Ma è stato anche un modo per raccontare, soprattutto ai giovani, che il mondo del lavoro ha spesso logiche ciniche, o semplicemente tristi, ma che si può rimanere umani e che anzi alla lunga correttezza, trasparenza, condivisione sono i principi che davvero ti faranno fare la differenza, o quanto meno ti permetteranno la sera di guardarti allo specchio senza ansia.

Quanto coraggio ci è voluto per decidere di lasciare il cosiddetto “posto fisso” ed abbandonare un percorso di vita già delineato, non piacevole ma che comunque offriva delle sicurezze? chi ti ha sostenuto?

Nonè stato facile, sicuramente. A volte, nella mia seconda vita di lavoratore autonomo e poi di imprenditore, con le tante incertezze, mi chiedo se davvero ne sia valsa la pena… Ma poi penso a quanto, da quel fatidico momento di oltre dodici anni fa, sia tornato un uomo libero. E ancora oggi, a 53 anni suonati, mi piace guardare avanti e pensare ai tanti, troppi, miei sogni ancora da realizzare e non tornerei indietro. Mai. Per nessuna ragione. In questi anni mi ha sostenuto prima di tutto il mio inguaribile e indomito ottimismo. E la certezza di essere nel giusto. E poi, ovviamente, le persone a me più care.

Nel libro fai riferimento ai suggerimenti di Goleman a proposito degli stili di leadership. Nella tua esperienza sul campo quanto ti risulta siano oggi concretamente seguiti nella conduzione delle aziende?

Nel libro cito, tra gli altri, un dato ricavato da un’indagine ISTAT del 2008: in Italia ogni giorno, oltre due milioni e seicentomila persone si sentono vessate nel lavoro. Questo dato, peraltro ampiamente sottostimato perché non tiene conto di chi non ha avuto il coraggio di dichiararlo e, purtroppo sicuramente peggiorato dal 2008 al 2020, ci dice che in tante aziende italiane, ma anche in tante pubbliche amministrazioni, lo stile prevalente è quello gerarchico-autoritario, che considera le persone come “subordinati” e basta. Non a caso, fino all’ultimo, sono stato indeciso sul titolo del libro: la mia prima idea era: “Non sei pagato per pensare”, frase tante volte, ancora oggi, viene pronunciata in maniera arrogante e offensiva da capetti piccini piccini che si aggirano, ahimè indisturbati, negli uffici delle organizzazioni italiane.

This post was published on Nov 22, 2020 12:30

Marina Topa

Insegnante di lingua e letteratura francese. Per caso ha conosciuto il "Pianeta Infanzia" e si è con slancio catapultata nella scuola dell'Infanzia dove, sempre per caso, ha scoperto di amare la scrittura.

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