Torna a farsi sentire Raffaele Cutolo. E lo fa, attraverso la bocca di sua moglie Immacolata Iacone e di Gaetano Aufiero, il suo avvocato difensore, dalla sua reclusione, a vita, nel carcere di Parma (lì dove si trovano anche Salvatore Riina, “Luchino” Bagarella, Massimo Carminati). Il tredicesimo in cui si trova ad “alloggiare” per scontare la condanna a 13 ergastoli. Lì, dove è detenuto con il regime del 41 bis, la moglie, che oggi parla con Repubblica, e la figlia, Denise, di 7 anni, nata attraverso l’inseminazione artificiale (“l’unica concessione fattami dallo Stato”), lo vanno a trovare una volta ogni due mesi, per un’ora. “Per dignità non mi sono mai venduto ai magistrati. Se la sono legata al dito e hanno buttato la chiave”. Quella che Don Raffè non usa più neanche per andare a fare la sua ora d’aria. “Se per respirare un’ora devo farmi perquisire e sottopormi a controlli umilianti, preferisco stare in cella“.
Quella cella dalla quale in molti forse lo avrebbero voluto tirar fuori per sentirlo parlare. Per sapere cosa avrebbe potuto raccontare sugli anni in cui è stato a capo di quello che lui stesso definisce “il Regno di Napoli. Quello che io volevo rifondare in uno Stato sociale indipendente dove chiunque potesse avere da mangiare”. Anni in cui lo Stato, con una mano lo combatteva, mentre quell’altra gliela tendeva. “Mi hanno usato e gonfiato il petto, da Cirillo (“È stata la prima trattativa Stato-mafia. Forse anche la mia vera condanna”) a Moro che, a differenza del primo, hanno voluto morto e infatti mi ordinano di non intervenire: leva ‘e mani (togliti di mezzo, ndr) mi disse Vincenzo Casillo (il suo braccio destro, detto ‘o Nirone, ucciso a Roma il 29 gennaio 1983, ndr). Poi mi hanno tumulato vivo. Sanno che se parlo cade lo Stato“.
Quello Stato fatto di politici che l’ex boss della Nuova Camorra Organizzata, definisce “Tutti parolai. Molti di quelli che stanno adesso ce li hanno messi quelli che allora venivano a pregarmi. Ho ammirato Andreotti. Testimoniai per lui al processo Pecorelli. Nemmeno un grazie, ci sono rimasto male. Alcuni suoi colleghi mi mandavano gli auguri a Natale. L’ultimo politico che ho stimato è stato Berlusconi”.
74 anni, 51 passati in cella a parte un anno di latitanza tra il 1977 e il 1978, dopo la fuga dal manicomio giudiziario di Sant’Eframo, 36 anni in isolamento totale (dall’82 e quindi dieci anni prima del 41 bis), un numero imprecisato di omicidi commissionati e nove assoluzioni negli ultimi nove anni. “Mi è talmente entrata sotto pelle questa condizione di defunto in vita che ormai non mi va nemmeno più che la gente mi veda. Ai processi rinuncio alla videoconferenza”.
E i suoi rapporti con la Camorra? “Pagina chiusa dal 1983, quando ho sposato Tina nel carcere dell’Asinara. Pago e pagherò fino alla fine. Ma non sono un pericolo. Sarei pericoloso se parlassi, ma non ce l’hanno fatta a farmi diventare un jukebox a gettone: il pentito va a gettone. Parla e guadagna. Un ulteriore oltraggio alla memoria delle vittime”.
E allora, il pentimento? “Mi sono pentito davanti a Dio ma non davanti agli uomini”. Tra i suoi, invece, di uomini, se n’è appena andato Pasquale Barra, “O’ animale”, il suo boia di fiducia. Anche il primo a tradirlo: “Ognuno fa le sue scelte. Barra ha avuto un’infanzia difficile. Ma ha rovinato il povero Tortora. Che Enzo Tortora era innocente lo dissi da subito. Chiesi ai magistrati di essere interrogato. Non mi vollero nemmeno sentire“.
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