Referendum No Triv del 17 aprile, cosa c’è da sapere

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Referendum No Triv del 17 aprile, cosa c'è da sapere

Il 17 aprile per la prima volta gli italiani potranno recarsi alle urne, chiamati a votare non dalle almeno 550mila firme raccolte, ma per merito dell’iniziativa politica di nove regioni. Ecco le informazioni fondamentali sul cosiddetto referendum No Triv riportate da Wired.

Chi vota
Si vota domenica 17 aprile. Possono recarsi alle urne tutti i cittadini italiani che hanno compiuto il 18esimo anno di età; per la prima volta anche chi risiede temporaneamente all’estero potrà partecipare alla consultazione per corrispondenza organizzata dagli uffici consolari. Perché sia valido, il referendum deve raggiungere il quorum, ossia deve andare ai seggi la metà più uno degli aventi diritto, come prevede l’articolo 75 della Costituzione.

Come si è arrivati al referendum
La consultazione, le cui origini ed esigenza vanno indagate nel tempo, è stata indetta in data 11 febbraio tramite decreto dal Consiglio dei ministri. Ha suscitato polemiche, da parte dei sostenitori del referendum, la scelta del governo di non accorpare il voto alla tornata amministrativa (che sarà con ogni probabilità a giugno).

Nel settembre del 2015, Possibile aveva lanciato la raccolta firma per indire otto referendum, tra cui quello sulle trivelle, ma l’iniziativa era naufragata. Nelle settimane successive nove consigli regionali (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto) hanno promosso sei quesiti. Solo uno è stato ammesso dalla Cassazione, gli altri erano stati superati dalle modifiche alla legge di Stabilità approvata a fine 2015. Un successivo braccio di ferro tra l’esecutivo e le regioni, che contestavano a Palazzo Chigi di aver legiferato su materie di loro competenza, è stato risolto a favore del governo il 9 marzo. E così si andrà al voto su un solo quesito.

Il quesito referendario
Il testo del quesito è il seguente:

“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 ‘Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)‘, limitatamente alle seguenti parole: ‘per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale‘?”

Si chiede così agli italiani di cancellare l’articolo del codice dell’ambiente che permette le trivellazioni fino a quando il giacimento è in vita. Il quesito riguarda solo le operazioni già in atto entro le 12 miglia marine dalla costa, non quelle sulla terraferma oppure in mare a una distanza superiore. Il decreto legislativo 152 prevede già il divieto di avviare nuove attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi gassosi o liquidi entro le 12 miglia, per cui il referendum agisce solo su quelle già in essere.

Cosa cambia se vince il Sì
Una eventuale vittoria del Sì bloccherebbe tutte le concessioni per estrarre il petrolio entro le 12 miglia dalla costa alla scadenza dei contratti attualmente attivi. Di fatto il referendum riguarda 21 concessioni: 7 sono in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata e in Emilia-Romagna, una in Veneto e nelle Marche. Rispecchiano la presenza di giacimenti finora individuati lungo la costa Adriatica, nel golfo Ionico e nel Sud della Sicilia.

Oggi le concessioni hanno una durata di trent’anni, prorogabili di dieci e poi di altri cinque anni. Con il Sì non sarebbe più possibile andare oltre, eliminando la possibilità di proroga: questo comporterebbe la cessazione nel giro di alcuni anni delle attività attualmente in corso, tra cui quelle di Eni, Shell e di altre compagnie internazionali.

Cosa cambia se vince il No
Si tratta di un referendum abrogativo e un’eventuale bocciatura lascerebbe la situazione inalterata. Ossia, come già accade, le ricerche e le attività petrolifere attualmente in corso potranno proseguire fino a scadenza. Successivamente le compagnie potranno presentare una richiesta di prolungamento dell’attività, che sarà autorizzata sulla base di una valutazione di impatto ambientale.

Dunque le estrazioni di idrocarburi non avranno scadenza certa, in molti casi potrebbero proseguire fino all’esaurimento del giacimento. Nulla cambia per quanto riguarda le trivellazioni sula terraferma e per quelle condotte in mare oltre le 12 miglia dalla costa. Né potranno per via di questo voto essere firmate nuove concessioni a ridosso della costa.

Chi sostiene il Sì
Guidato dai nove consigli regionali che hanno promosso il referendum, il fronte del Sì riunisce le maggiori organizzazioni ambientaliste (Legambiente, Greenpeace, Wwf) e il movimento NoTriv, sorto negli scorsi mesi. Hanno l’appoggio di forze politiche quali il Movimento 5 Stelle, Sinistra italiana e Possibile, cui si aggiungono pezzi del Pd e esponenti del centrodestra come i presidenti di Regione Zaia e Toti.

Le motivazioni sono principalmente di carattere ambientale: le trivellazioni, è quanto si sostiene, metterebbero a rischio le coste italiane e creerebbero inquinamento, arrecando danno a pesca e turismo. Con il Sì intendono mandare un messaggio politico al governo: il futuro è nelle fonti rinnovabili, sulla base dell’Accordo emerso dalla conferenza sul clima di Parigi è urgente un rapido cambio di strategia per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico nazionale.

Chi sostiene il No
Matteo Renzi e il suo governo per il momento non si sono spesi per il No al referendum, ma sono certamente contrari all’iniziativa delle Regioni. Allo stesso modo la maggioranza del Partito Democratico. Secondo loro, l’impatto ambientale delle trivellazioni sarebbe stato per ora moderato e lo stop alla proroga delle concessioni entro le 12 miglia cambierebbe poco o nulla. Insomma, si tratterebbe di un voto inutile e politicizzato.

Al contempo c’è chi, come il fondatore del comitato Ottimisti e razionali Gianfranco Borghini, sostiene che una vittoria del sì avrebbe conseguenze pesanti sull’occupazione e che la fine delle estrazioni significherebbe la perdita di migliaia di posti di lavoro sulle piattaforme offshore. Diviso anche il sindacato: il segretario dei Chimici della Cgil Emilio Miceli ha paventato il rischio disoccupazione per i dipendenti in un settore in cui “l’Italia primeggia nel mondo”.