Marius Kociejowski cerca e racconta l’anima di Napoli offrendo una città per lo più illuminata dal sole
Qualche anno fa, un inglese entrò in un negozio per turisti al piano terra di un palazzo napoletano e disse a una donna che stava cercando l’anima di Napoli. L’edificio, chiamato Palazzo del Panormita per un noto letterato italiano, sorge su via Nilo. Oggi, quella griglia scorre in un’arteria tagliata dagli spagnoli nel XVI secolo, quando il Regno di Napoli era sotto il loro controllo imperiale.
Chiamata dagli spagnoli Via Toledo, la via divenne Via Roma tre secoli dopo, quando Napoli, libera da una serie di signori stranieri, si unì all’Italia unita. Eppure per molti napoletani l’idea di essere governati da Roma era apparentemente aberrante quanto il dominio spagnolo: il nome Via Roma suscitò tanto risentimento che, negli anni Ottanta, la città riportò in uso ufficiale l’antico nome spagnolo. Ancora oggi i napoletani differiscono nettamente su come dovrebbe essere chiamata la loro via commerciale centrale.
Dov’è dunque l’anima di Napoli? Dove risiede? Secondo quanto scritto all’interno del New Yorker, l’esperta napoletana rispose come se fosse una Sibilla in una grotta e attendesse da secoli il suo interlocutore: “Io sono l’anima di Napoli“. Marius Kociejowski, un poeta, saggista e scrittore di viaggi canadese, che per decenni si è guadagnato da vivere nel commercio di libri rari di Londra, è l’uomo che le stava davanti.
Il suo nuovo libro, “The Serpent Coiled in Naples” (Haus Publishing), affronta alcune grandi domande proprio in merito alla ricerca dell’anima della città. Soprattutto, Kociejowski si rende conto di quanto un estraneo non possa mai sapere, e per questo ha il buon senso e il coraggio di inseguire il popolo napoletano per comprendere. Non solo professori e antropologi, ma pittori e uno chef e burattinai e musicisti di strada.
Marius Kociejowski cerca e racconta l’anima di Napoli. Racconta Pina Cipriani, la donna del negozio turistico di Palazzo della Panormita. La sua voce un tempo era così accattivante che, per anni, ha attirato il pubblico in un teatro locale, che aveva fondato con il marito, cantando canzoni napoletane accompagnata da un ensemble d’archi.
Quando Kociejowski la incontra, ha ancora la sua voce, ma la donna un tempo annunciata come “la Voce dell’Anima” ora, sulla settantina, si esibisce su musica preregistrata nel retro del negozio per piccoli gruppi di turisti e vecchi sostenitori. Il destino ha lasciato Pina Cipriani, dopo la morte del marito e la perdita del suo teatro, a restare in piedi coraggiosamente fino alla sua morte, nel 2019.
“La cultura napoletana è per forza di cose adattativa” scrive il New Yorker. La canzone napoletana “‘O Sole Mio” ha uno schema ritmico derivato dall’habanera cubana. Ma le persone hanno dovuto essere estremamente adattabili. Nella canzone “Munasterio ‘e Santa Chiara”, scritta nel 1945, un lontano emigrante napoletano desidera ardentemente tornare a casa ma teme di scoprire che le storie di distruzione in tempo di guerra sono vere. La canzone non ha bisogno di menzionare che la magnifica chiesa gotica di Santa Chiara fu bombardata fino quasi alla distruzione nel 1943.
Questo libro offre una Napoli per lo più illuminata dal sole, “la visione evidentemente grata di un estraneo che ha trovato una casa spirituale”.
Kociejowski non è un inglese nativo: è cresciuto in un desolato Ontario rurale, dove suo padre, un polacco, e sua madre, una donna inglese, erano emigrati infelici. Da bambino desiderava l’Inghilterra di tè e librerie ma anche l’Italia. Dopo che i suoi genitori lo portarono a un concerto del tenore italiano Beniamino Gigli, all’età di sei anni, pretese per anni di chiamarsi non Marius ma Mario. Poco più che ventenne si trasferì a Londra. Ha scritto altri libri sulle città che ama – su Damasco, a cui ha dedicato più di un decennio di studi, e su Londra.
Ora, essendo diventato un napoletano orgoglioso anche se onorario, Kociejowski giunge alle sue conclusioni su come vivere vicino a un vulcano, attraverso la giusta filosofia e un po’ di prestidigitazione. Viaggiando in una vicina città industriale per intervistare un noto maestro di un antico tipo di tamburo di pelle di capra o di pecora chiamato tammorra, che viene suonato ai funerali e che potrebbe aver accompagnato un tempo i riti dionisiaci, trova il suo eminente soggetto, con tutta la sua vita, confinato in un piccolo appartamento in un edificio nuovo, squallido e senz’anima.
Peggio ancora, la luce del sole deve virtualmente farsi strada nel luogo, essendoci una sola finestra. Kociejowski è indignato. Ma la vista è del Vesuvio, quindi, inizia a pensare Kociejowski, la finestra solitaria potrebbe in effetti essere un mezzo di protezione contro la montagna instabile che per millenni ha plasmato l’atteggiamento locale nei confronti della vita e della morte. “Se decide di scoppiare”, scrive, con un improvviso lampo di soddisfazione, “tutto quello che devi fare è tirare il sipario”.