Corrispondenze dell’esule
Rubrica di Annamaria Torroncelli
Una nuova rubrica di Annamaria Torroncelli, napoletana verace e romana d’adozione. Si definisce esule in terra straniera da quando, molti anni, fa una sua carissima amica le regalò un libro di fattarielli napoletani per il suo compleanno e nella dedica scrisse “Alla mia carissima Annamaria, esule in terra straniera.”.
Da allora, ha fatto suo questo appellativo, e ne va orgogliosa.Il suo amore per Napoli è carnale, quello per Roma indispensabile.
E le sue Corrispondenze lo testimonieranno
Ricordi e profumi. Quando la scuola iniziava il primo ottobre.
Oggi è un anonimo primo del mese. Una volta il primo ottobre iniziava la scuola.
È bastato uno sguardo al calendario perché scattasse questo amarcord che sa di malinconia e qualche capello bianco. Nessun rimpianto per gli anni passati, non sono un laudator temporis acti, non è il mio genere. Guardo avanti, il progresso mi piace, mi affascina. Ma non per questo trascuro il recupero e la trasmissione della memoria, che alla vita dà senso e sapore.
Ho vissuto la mia infanzia in un tempo scandito da feste e tradizioni. E ottobre era un punto nodale dell’anno. La scuola riapriva i battenti. I portoni e le scale, dopo quasi quattro mesi di innaturale silenzio, si rianimavano con turbe vocianti di bambini e ragazzi. Un fiume in piena che sapeva di spensieratezza e di allegria si riversava nelle classi alla conquista del posto migliore, quello accanto all’amico del cuore o quello più lontano dall’occhio vigile dei maestri.
La didattica era scandita da tappe obbligate. Il primo iniziava la scuola, ma il 4, San Francesco, patrono d’Italia, si faceva subito vacanza. Poi, l’anniversario della scoperta dell’America, il 12, era celebrato con il tema di rito, tema che non poteva mancare neanche nella giornata dedicata al risparmio, il 31.
Alla scuola elementare, le femminucce indossavano grembiulini bianchi e il fiocco azzurro, i maschietti, grembiulini neri e fiocco azzurro. Le mamme più attente alla cura della divisa, e la mia lo era moltissimo, con mano esperta bruciavano il bordo del fiocco per evitare che il tessuto sintetico si sfilacciasse e conferisse all’abito un che di trasandato.
In classe l’odore del gesso e dell’inchiostro si impastava alla candeggina che i bidelli utilizzavano abbondantemente per il lavaggio dei pavimenti. L’inchiostro sì, miei cari, perché nonostante non sia Matusalemme, io ho imparato a scrivere con il pennino che si intingeva nell’inchiostro. Insomma, roba alla De Amicis. E che rabbia quando sul quaderno di bella copia, il pennino intinto con troppa profondità nel calamaio, arpionava un bel grumo di gromma e una macchia inesorabile si spandeva sul foglio facendo scomparire in un baleno le aspettative di un bel voto.
Non c’erano carte assorbenti che tenevano, la macchia si allargava a dismisura. Inesorabile.
A metà mattinata, quelli che frequentavano, come me, una scuola che disponeva di un grande cortile, potevano godersi la merenda all’aria aperta, Se la struttura della scuola non lo permetteva o se il tempo era cattivo, si restava in classe, mangiando sul banco debitamente coperto da un tovagliolo di stoffa.
La scuola pubblica, allora più di oggi, testimoniava le differenze sociali: i figli delle famiglie meno abbienti erano dignitosamente poveri, e povere erano anche le loro merende. Una mela, una fetta di pane con le alici, un pezzo di pizza rigorosamente bianca, la più economica. Ma io non ricordo di aver fatto mai delle discriminazioni, né io né i miei compagni. Tutti sbirciavamo nel tovagliolo del compagno solo per vedere che c’era di buono e pensare, eventualmente, a qualche cambio favorevole. Io ad esempio, adoravo la tavoletta di cioccolata a farcitura del panino (c’erano le tavolette della Ferrero che costavano £ 10, perfette per loro dimensione per imbottire un panino all’olio!), ma mia madre non assecondava i miei desideri. Allora, la cioccolata mi creava problemi di intolleranza e mi era vietata. Meglio burro e prosciutto, pizza con la mortadella o, udite udite, panino con le melanzane sott’olio.
Nella mia famiglia, orgogliosamente napoletana nelle tradizioni anche fuori del territorio natio, mia madre aveva sempre prestato grandissima attenzione alla cucina della migliore tradizione partenopea, semplice, saporita, profumatissima.
Ho vissuto la mia infanzia ed adolescenza in una casa che si trasformava, nel mese di settembre, in una vera e propria industria conserviera: conserve di pomodoro, pelati, marmellate, e melanzane sott’olio, appunto.
A dire il vero, da bambina, le melanzane non mi piacevano molto,e le marmellate casalinghe mi sembravano meno appetibili della famosa tavoletta di cioccolata. Ma mia mamma continuava a rifilarmi, ogni tanto, le famose melanzane che, invece, erano molto apprezzate dalle mie compagne e anche dalla maestra.
E come poteva essere diversamente! L’aroma dell’aceto di cottura, il profumo intenso dell’origano e dell’aglio, l’olio di copertura. Una fragranza paradisiaca si spandeva nell’aula all’apertura del tovagliolo.
Dietro quel profumo c’era tutto l’amore e il calore della casa, della mamma, della famiglia. Il profumo indelebile della vita, dell’infanzia.
Della scuola che iniziava il primo ottobre.