Sarri: “Sono emozionato ma resto quello di sempre. In panchina continuerò ad andare in tuta”

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Sarri: "Sono emozionato ma resto quello di sempre. In panchina continuerò ad andare in tuta"

Maurizio Sarri, il neo tecnico del Napoli, ha rilasciato una intervista in esclusiva ad Antonio Giordano per il Corriere dello Sport-Stadio. Ecco il testo ripreso dal sito internet ufficiale del quotidiano. Un testo che sa di voglia di fare, di realismo, ma anche di non porsi limiti mai. Come il nuovo Napoli di Sarri. Che non sceglie tra difesa e attacco, come non sceglie tra bosco e riviera. Che si sente più toscano che napoletano. Ma che dei napoletani ha la nascita. E quella non si dimentica.

 

Per cominciare: ma possibile che nessuno si sia accorto di Sarri, prima di quest’anno? Dove s’era nascosto?

«Disattenzione ce n’è stata, ma non perché sia sfuggito agli occhi degli osservatori il sottoscritto: è strano, semmai, che calciatori come Croce, come Valdifiori, siano arrivati in serie A così tardi. E tutto ciò qualcosa dice».

All’improvviso, prima il Milan, poi il Napoli, e poi anche tante altre: la stagione di Empoli è stata rilevante ma, onestamente, se lei fosse stato De Laurentiis l’avrebbe preso Sarri?

«Nei panni del presidente, avessi avuto modo, l’avrei preso anche prima; così avrebbe avuto un allenatore più giovane sulla propria panchina. Però va detto anche ch’è stata una scelta coraggiosa».

Storie (anche) buffe, curiose: lei nasce a Bagnoli, in linea d’aria dal san Paolo è un battito di ciglia. Alla sua età si ha il diritto di emozionarsi?

«Lo sono e non lo nego, anche se ci ho pensato poco. Ho provato ad isolarmi dalla vicenda, quasi non mi toccasse. Poi ci ho riflettuto. Io qua a Napoli ci sono stato pochissimo, però è chiaro che ora che ci sono arrivato si scatenano i pensieri e qualche effetto lo fanno».

In sincerità, nota tracce di napoletanità in sé?

«Poche, quasi nessuna; ma perché sono cresciuto altrove. E però quando m’è capitato che qualcuno m’abbia chiesto, con un’arietta che sapeva di razzismo, ma te sei nato a Napoli? lì sì che ho avvertito il richiamo delle origini».

E invece lei, ma con simpatia, rientra tra i «maledetti toscani»… Quattro nomi non a caso: Orrico e Viciani, Allegri e Lippi, epoche e gesta differenti.

«Ma credo di non essere assimilabile a nessuno di loro. Ad Allegri e Lippi per ovvi e comprensibili motivi, viste le rispettive carriere ed i successi ottenuti; ad Orrico e Viciani per una diversità che è inevitabile. Neanche loro due avevano molti punti di contatto. Certo, uno con la Carrarese ha fatto cose egregie, che restano negli annali; e l’altro con la Ternana ha segnato un’era: però metodi di lavoro, convinzioni e teorie restavano distanti».

Le avremmo chiesto, a questo punto, se nel suo calcio ci fosse qualcosa del gioco corto di Viciani, emanazione del football totale dell’Ajax… Ma ha quasi risposto.

«Ho visto giocare la Ternana quand’ero ragazzo, a Firenze; poi poche altre volte. E non so se nell’inconscio qualcosa mi sia rimasto. Però Viciani ha ottenuto dal calcio molto meno di quello che avrebbe meritato».

E Sarri ha ricevuto tardi?

«Ora mi godo Napoli e lavoro affinché questa squadra, che ormai ha un ruolo fisso in Europa e che in Italia è tra i primi cinque club – per capacità finanziaria e tecnica – resti tra le Grandi. Già lasciarsi due società alle spalle, al termine della prossima stagione, mi parrebbe niente male».

Finirà con il Napoli che s’ispirerà all’Empoli?

«Impossibile che ciò accada. Non voglio essere ripetitivo, né riprodurre un sistema che avrà interpreti diversi ed in condizioni differenti dal passato. Vorremmo essere noi stessi, con la nostra testa e il nostro gioco e la nostra mentalità. Adatterò il mio gioco alle caratteristiche degli uomini che ho a disposizione per esaltarli».

Dicono di lei: è un sacchiano. Dunque, finirà per suggerire ad Albiol di fare i movimenti di Tonelli, così come si narra nelle leggende metropolitane facesse Sacchi spiegando a Baresi come si muoveva Signorini?

«Intanto non ho mai creduto che Sacchi spingesse Baresi a seguire gli allineamenti di Signorini; né mi spingerò io a tanto. Però so bene che nel calcio si alimentano romanzi ad uso e consumo della gente».

Secondo l’Avvocato Agnelli, a quel tempo, un allenatore incideva al 20%; secondo Allegri, oggi, non più del 5%.

«Il venti è tanto: una bella responsabilità. Significa, in positivo, trasformare una squadra da cinquanta punti in una da sessanta, dunque portarla a ridosso della zona-Champions, «dentro» l’Europa League; e in negativo, invece: trasformare la stessa squadra da cinquanta punti in una da quaranta, che dunque si salva».

Lei all’Empoli cosa ha dato?

«Ho inciso, il resto lo hanno fatto gli altri: i dirigenti, la città, la squadra».

Le è capitato in questi giorni, magari ora, di pensare: sto sognando?

«No, perché è tutto vero e me ne rendo conto. Ma ciò non ha generato in me trasformazione: sono quello di Empoli, anche se intuisco che sarà più complicato muoversi per strada, nell’anonimato».

S’è invece chiesto quando è riuscito a sedurre De Laurentiis?

«Può darsi che le due partite ci abbiamo messo del loro, perché sia all’andata che al ritorno giocammo molto bene. Poi altro ha provveduto ad aggiungerlo il presidente, che è uomo dinamico, di mille risorse, curioso, d’intelligenza viva».

E quando tornerà al «Castellani »?

«Non sarà una giornata normale, impossibile. Ci saranno troppe componenti, in quelle ore, a scuotermi. Questa è stata l’esperienza che mi ha segnato, che mi ha lanciato, che mi ha dato gratificazioni forti, non solo calcistiche ma umane».

De Laurentiis le ha cambiato la vita (e non intendiamo economicamente, ci creda)?

«Mi sento eguale a prima. Certo sono ritmi ed interessi più intensi. Ma io in me non noto differenze».

Consenta una battuta: non ha una faccia da bancario.

«Non me la sono scelta, me la sono ritrovata e ormai mi ci sono abituato. Mi sta bene così, pure perché non potrei far nulla per cambiarla».

Le piacciono le letture: Bukowsky, John Fante, Vargas Llosa, neanche un italiano….

«Mi ha entusiasmato Baricco, anni fa, e lo seguii anche in tv, dove portò i libri. Però ho la tendenza ad appassionarmi agli scrittori stranieri».

Le tocca un «altro» calcio e si metterà alla prova anche lei: ma la palla è uguale ovunque?

«Sicuramente sì, solo che ci sono città nelle quali è indiscutibilmente più pesante».

Ci sono allenatori che allenano, o tentano di farlo, anche i giornalisti: è un compito che pensa di dover assolvere?

«Assolutamente no. Sono mediaticamente distratto: non mi sveglio con il pensiero di leggere i giornali e sfoglio quelli che mi piacciono; non vado su Internet, non seguo i dibattiti, io penso al lavoro e basta».

Le fotografie del calcio anni ’80 di Sarri sono: il Foggia di Zeman ed il Chievo di Delneri.

«Due squadre che hanno fatto cose eccezionali, rispetto ai capitali a disposizione. Due squadre che sono piaciute, perché ricche di una identità fortissima».

Due opposti, però…

«Secondo me le etichette rischiano di diventare offensive e forse lo sono: dare dell’offensivista o del difensivista è limitativo. Quelle squadre avevano un’anima e una loro precisa filosofia».

Banalità: fuma più lei o Zeman?

«Credo che Zeman mi batta, perché si sveglia prima di me al mattino».

Lei è da bosco o da riviera?

«Da bosco e da riviera. Penso di sapermi adattare, di avere una natura che sa star bene ovunque».

La difesa o l’attacco?

«La difesa e l’attacco, il tentativo è quello di riuscire a trovare la fusione ideale».

La tuta o giacca e cravatta?

«Siamo gente di campo e la tuta è abbigliamento da campo. Poi capisco, so che nei trasferimenti e in sala stampa bisogna presentarsi diversamente: ma se De Laurentiis me lo consente (sorrisino….) in panchina vado come sempre».

L’eredità di Benitez sa di peso o di stimolo?

«Non mi soffermo su questo particolare, pur sapendo di aver avuto come predecessore un allenatore di enorme profilo internazionale. Però De Laurentiis m’ha voluto ed ora il dovere di ricambiare: cercherò di riuscirci attraverso il lavoro, evitando di distrarmi su questioni del genere».

Lei saprà che il verbo declinato con maggior insistenza, dalla gente a Napoli, è: vincere.

«E so che bisogna essere onesti con i tifosi, senza offrire illusioni ma garantendo impegno e serietà. Poi sarà il campo a dire cosa saremo stati in grado di fare».

Questo Napoli, così come sta nascendo, le piace?

«A me piaceva pure quello di prima, che forse non ha ottenuto quanto meritava. Se chiudessimo così il mercato, sarei contento».

La Juventus – in generale il calcio italiano – senza Pirlo e Tevez perde qualcosa?

«Scelte personali, nelle quali non si entra. E ad una certa età un calciatore deve aver la libertà di ragionare. Però la Juventus era fortissima e all’interno di sé aveva comunque preparati la successione a Pirlo, perché Marchisio sa bene come si fanno certe cose; e Morata è un ragazzo ma con la testa d’un grande».

Oltre alla romane, che già c’erano, stanno tornando le milanesi…

«Così sembra dica il mercato ».

Giocare ogni tre giorni è una novità.

«Si potrebbe arrivare a sessanta partite. M’è capitato una volta tra i dilettanti, poi mai più. Sarà divertente, non penso – non credo – comporti difficoltà».

Ha preparato il discorso alla squadra?

«Non è nelle mie abitudini. Parlerò singolarmente, di persona, perché al telefono non mi piace. E dirò le cose che riterrò giuste, per tirare fuori da ognuno di loro il meglio e capire quali siano gli obiettivi individuali e collettivi».

C’è un sostantivo, otto lettere, comincia con «s» e finisce con «o» che a Napoli è un’ossessione… Si chiama scudetto, ma non si dice.

«Vale quanto sopra: certe frasi ad effetto non vanno pronunciate, in questo momento non sarebbe giusto, né onesto, è lontano. Ma lavoreremo per riuscire ad arrivare nel minor tempo affinché questo non sia più un sogno».