Credo che sia arrivato il momento di riflettere su quello che è stato e che è il racconto pubblico della pandemia Covid, soprattutto in considerazione della natura dei media elettronici che si caratterizzano particolarmente per una strana commistione di notizia e intrattenimento.
Infatti, in tale contesto di diffusione delle notizie, non appannaggio esclusivo dei media elettronici, prevale un ritmo e una serialità che hanno poco o nulla a che fare con la necessità di sapere e di comprendere.
Alla fine di tutto ciò, colui che dovrebbe essere il fruitore della notizia diventa una sorta di spettatore tanto inerte quanto gratificato nel suo aspetto “giocoso”.
Un inequivocabile effetto della spettacolarizzazione fornita dalla televisione e dagli altri media.
La prevalenza del divertimento sull’ informazione risparmia pochi segmenti mediatici, ponendosi al centro di flussi di comunicazione che coinvolgono web, televisione e stampa.
Potrà apparire paradossale in questa fase in cui si accentua il ruolo degli scienziati, perché da essi dipendono le nostre vite, facendo venire meno, si spera definitivamente, la sbornia “dell’uno vale uno” ossia una riaffermazione della competenza e, quindi, dello studio, della complessità che fanno a pugni con una certa idea della ignoranza vista come espressione di genuinità, quasi di purezza.
Ricordate le polemiche contro i radical chic?
Ma le competenze scientifiche sono state lanciate in una indistinta marmellata mediatica che vede virologi, immunologi ed epidemiologici invadere talk show insieme a programmi di approfondimento.
Questo ha oggettivamente indebolito agli occhi del grande pubblico la credibilità degli esperti di cui stiamo parlando.
Infatti, mentre la diversità di opinioni per le scienze esatte che abbisognano di continue verificabilità è una cosa necessaria, invece la dialettica tra scienziati espressa e rappresentata nel palcoscenico mediatico, incalzata dai conduttori, banalizzata dallo scenario televisivo e comunicativo in genere, si è trasformato in una sorta di ring polemico e conflittuale.
La discussione specialistica, resa particolarmente semplificata allo scopo di raggiungere il vasto pubblico mediatico, si è trasformata, spesso indipendentemente dalla volontà dei protagonisti, in una discussione “generalista”.
Inoltre, gli scienziati, diventando volti popolari, si sono lasciati risucchiare, quasi ininterrottamente, nel contesto mediatico e sollecitati a esprimersi su questioni che fuoriescono dalle loro competenze specifiche, pur essendo limitrofe alle stesse.
In altre parole, sono diventati personaggi televisivi, chiamati per definizione a discettare su tutto, anche su questioni giuridiche, quali i ruoli, i poteri e i compiti delle Istituzioni centrali e periferiche.
Questa fase storica della pandemia ha una certa analogia con quella di tangentopoli.
Allora era il magistrato la figura che concentrava la soluzione di tutto. Adesso è lo scienziato a cui è stata attribuita una carica risolutiva.
Non a caso prima accennavo all’ aspetto “giocoso”, perché le dinamiche comunicative che provavo a descrivere hanno tutte le caratteristiche di un gioco che non prevede una soluzione, ma una continua riproposizione dello stesso. In questo caso il gioco è: “il coronavirus”.
Pertanto, al fine di giocare quanto più possibile, occorrono tanti opinionisti. E un opinionista senza specifica competenza vale come qualsiasi altro. In tale scenario, inevitabilmente, vengono pronunciate frasi ad effetto che sono consustanziali agli odierni mass media.
In buona sostanza, si frullano gli argomenti per banalizzarli e per inserirli in un continuo scontro e retroscena, alimentando l’ idea che alla fine si può pensare come si vuole, anche di fronte a una pandemia.
La conseguenza inevitabile è che, se in politica viene premiato il più simpatico, avviene ugualmente anche per la scienza.
Tant’è che i politici scelgono gli scienziati di riferimento con relativo crollo di credibilità.
Certo, in determinati spazi informativi viene garantita una sana informazione con annesso competente approfondimento, ma il grande pubblico è escluso da ciò.
Tornando al discorso iniziale, occorrerebbe una seria riconsiderazione degli operatori dell’ informazione, degli scienziati e della politica alla luce di come è stata rappresentata alla pubblica opinione la pandemia, dalla quale non ne siamo ancora usciti.
Una buona informazione è fondamentale per una vera democrazia.