Ci siamo, le porte si aprono e si chiudono. Molti bambini delle materne ed elementari hanno cominciato la scuola, mentre lunedì inizieranno anche le medie e le superiori. C’è però una riflessione da fare su questo inizio che sembra essere uguale a tutti gli inizi, ma non lo è. Non è uguale perché le persone sono diverse, insegnanti e studenti, ma sopratutto perché la distrazione verso l’essenza della scuola e il suo reale fine aumenta a dismisura.
Ci sono troppi problemi reali che, ancora una volta, non sono affrontati con progetti concreti al cui centro ci sia la persona studente, la persona insegnante, la persona famiglia, la persona personale non docente. Eppure, tutto inizia, come se quei problemi irrisolti potessero davvero restare chiusi fuori da una porta, da un portone o da un cancello, almeno.
Non è così, non potrebbe esserlo e non deve esserlo, perché nella scuola c’è la società tutta che chiede conto del presente e del futuro. Non devono interessare, qui, le differenze e le rivendicazioni tra paritarie e pubbliche, in entrambi i casi ci sono quelle di serie A e di serie B, proprio perché la scuola è fatta da persone, da tutte le persone, con le fragilità, i pregi e i difetti che esistono ovunque e comunque.
Quelle porte chiuse non servono a tutelare la scuola, questa volta, perché gli aggressori non sono fuori ma dentro di noi e si chiamano indifferenza, ignoranza, interesse, personalismo, cecità, sfruttamento, solitudine… amara solitudine. Quella porta chiusa è come l’innesto di una bomba a orologeria. Una volta che tutte le porte saranno chiuse non bisognerà che contare i secondi dallo scoppio.
Perché?
Non per abitudine, ma perché non ci si vuole e non ci si deve abituare al silenzio, al vuoto, alle suppellettili che crollano o alla mancanza totale di continuità didattica e formativa, a scuole che chiudono perché non ce la fanno a resistere alla pressione economica, a tanti genitori che scelgono la via facile della promozione comprata più che vissuta e onorata dalla competenza acquisita dai propri figli. Si rinuncia ad amare la Scuola, che significa non solo il sapere per il sapere ma la conoscenza di sé e dell’altro per imparare a sapere… pietas et litterae… la chiamava un grande uomo e pedagogo, pur senza sapere di esserlo…
Pietas et litterae…
Si rinuncia a una scuola che pone al centro del proprio progetto educativo la persona nella sua integrità, la persona dalla quale far nascere liberamente l’uomo inedito che si nasconde lasciando che solo la sua parte edita e corruttibile sia sempre in bella mostra.
Si rinuncia a una scuola dove la libertà degli insegnamenti non prescinda mai dalla libertà della persona, di qualsiasi persona in un progetto concreto di reale inclusione e integrazione di ogni differenza.
Si rinuncia a una scuola dove i ragazzi trovino una ragione per esistere e costruire il futuro, dove essi siano i padroni della formazione contribuendone personalmente allo sviluppo.
Si rinuncia a una scuola dove le conoscenze e competenze non siano frutto di processi meccanici ma di accoglienza e di valori da scrivere o riscrivere. Non si tratta di una scuola impossibile, ma di quella che tutti desideriamo e alla quale stiamo rinunciando, costretti o meno.
A proposito, il grande pedagogo di cui sopra, ideatore e testimone dei principi di cui sopra, è Giuseppe Calasanzio, fondatore della prima scuola popolare pubblica nel lontano 1600 da cui derivano le Scuole Pie, fedeli al progetto ieri, oggi e domani, fino all’ultimo respiro se sarà necessario.
La scuola implode ed esplode e a pochi interessa davvero, come se davvero fosse solo un passaggio, in fondo, è un passaggio, non un parcheggio, essenziale per i giovani.
Dove sono i giovani nella riforma attuata? Dove giace la cura per la loro formazione umana e culturale? Semplicemente non c’è
Che cosa, allora, augurare alla scuola tutta, studenti, insegnanti, famiglie, personale non docente, il coraggio di distinguere sempre il fuori dal dentro e la forza di continuare a lottare per ciò che è dentro e non solo per ciò che è fuori di noi. La speranza di non abbandonare la cura dei ragazzi affinché essi restino sempre il centro del nostro operare in un tempo che li vede morire sempre più giovani, per le occasioni perse e sostituite con qualcosa di apparentemente più facile, come accade nella mia città, ma infinitamente più distante dalla vita che ogni giovane dovrebbe costruire per sé.
Per chi ha letto “Cecità” di Saramago… Non si deve stare dalla parte dei ciechi.
Forse non servirà a niente, ma non si resta sul bordo a guardare gli altri cosa fanno.
di Loredana De Vita