Scuola: un urlo dal vuoto

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Bianchi

Una riflessione su quanto accade nelle scuole deve essere fatta, da tutti.

Non per denunciare i bassi stipendi, che ci sono; non per denunciare una burocratizzazione fallimentare della scuola, che c’è; non per commentare sulla valutazione culturale o meno di una scuola divisa tra progetti di vario tipo che tolgono spazio e tempo alla cosa essenziale di una scuola: la formazione.

No, non per questo, sebbene questi siano elementi essenziali e imprescindibili, ma oggi un’altra è l’analisi che deve essere condotta: è davvero la scuola responsabile di tutta la violenza che ogni giorno svilisce il ruolo degli educatori sia perché vittime che perché carnefici?

La tanta violenza dentro e fuori la scuola da parte di adolescenti, le violenze sessuali degli adulti verso i minori, l’incapacità e spesso l’impossibilità di gestire nella scuola tante situazioni fuori dalla norma, l’annichilazione del ruolo formativo da parte degli adulti, l’ossessione per la prestazione fino allo sfinimento e all’annullamento della persona, la perdita di valori e l’erosione dei principi basilari di qualsiasi relazione. Tutto questo e altro ancora, non nasce nella scuola, ma fuori di essa.

La scuola non fa altro che agglomerare insieme tutte le mancanze e le carenze di una società vessata dal principio di “individualizzazione” e di “globalizzazione” delle emozioni come delle azioni, della ricerca umana come della speranza nell’umanità, ma non è la scuola a produrle.

Si potrebbe obiettare e chiedere “che cosa fa la scuola?”. Quello che può, che spesso è poco o fatto male, d’accordo, ma non è la scuola ad avere la responsabilità unica della situazione.

Certo, un’insegnante legata a una sedia, presa a calci, filmata e messa “in circolo” in rete o una sfregiata fanno pensare, e non sono che alcuni dei tanti episodi, a una mancanza di intervento deciso. Sospendere una classe con obbligo di frequenza (con tutto il rispetto per le ragioni del Consiglio di classe, trascurando persino che per situazioni di questo livello dovrebbe riunirsi un Collegio di Istituto), infatti, non è una punizione, ma una dichiarazione di “resa”; dichiarare (con tutto il rispetto per la bontà dell’insegnante) di volere bene al ragazzo che l’ha sfregiata, non è una cosa giusta perché “volere bene” e “volere il bene” non sono la stessa cosa. Le risposte date dalla scuola suggeriscono ai ragazzi che hanno il diritto di ripetersi se un docente “non sa tenere una classe” (come hanno dichiarato alcuni compagni nelle interviste fuori scuola); significa dire a un ragazzo che il bene giustifica qualsiasi cosa, anche la violenza, perché il bene perdona sempre.

No, non è così, non deve essere così.

Le soluzioni scelte (certamente motivate da buone intenzioni, ma non confondiamo l’educazione al rispetto e alle regole con il “buonismo caritatevole”) affermano che se è tutto lecito verso un adulto che rappresenta l’autorità, lo è a maggior ragione verso un pari. A che servono allora le guerre contro il bullismo (ed è un bene farle), mentre gli si apre la porta dall’altro (il che è un segno di decadenza)?

Poi, non li ho dimenticati, ci sono quei docenti irresponsabili che sporcano il termine stesso che definisce il loro ruolo di “insegnante”, segnare dentro, o di “educatore”, uno che ha cura della formazione. Di certo i bambini o adolescenti violati da questi vergognosi criminali i segni dentro li portano, per sempre; per sempre violati nella loro intimità e innocenza. Di certo la loro formazione è stata “mal curata” e sporcata dalla violenza lurida di chi non è stato responsabile, cioè “abile alla risposta”, capace di rispondere alle esigenze di un bambino o un adolescente che cresce.

Eppure, tutto questo nasce fuori la scuola. Quando questi ragazzi e questi insegnanti entrano in una scuola, sono già così manchevoli, non è la scuola a renderli tali. Quando siffatte persone entrano in relazione con altri, hanno già ricevuto un imprinting in famiglia dove già è assorbito lo sconforto e l’alienazione verso un tempo che non si ama e una vita che si brucia.

Quello che tutti imparano o hanno imparato o stanno imparando, lungo tutta la linea del tempo disponibile per definire la nostra alienazione di esseri trasformatisi ormai in a-sociali, è considerare solo se stessi, in quel preciso istante della propria esistenza, senza legame alcuno con le persone e con il senso.

Perché? Perché la nostra è la società della “prestazione individuale”, ogni cosa (come ogni persona altra da noi) è lo strumento per definire la percezione di se stessi come i “migliori, più forti, più abili, più sfrontati, più eversivi”, dimenticando tutti gli altri “più” che afferiscono alla sfera del rispetto per la libertà e per la vita dell’altro che, crediamo, non ci riguardino. Dimenticando che, oggi, una vera trasgressione è il rispetto dell’altro e delle regole.

È come se ci fossimo trasformati contemporaneamente nell’aquila e nel fegato del mito di Prometeo il quale, punito per aver donato agli uomini il fuoco rubato agli dei, fu condannato a vivere in eterno legato a una roccia dove di giorno un’aquila gli divorava il fegato che di notte ricresceva per sottomettere il traditore alla sua condanna eterna.

Noi, <<individui individuali>>, abbiamo scoperto il segreto di essere causa e giustificazione della nostra punizione: violiamo i confini della morale e delle regole di rispetto per l’altro e ci auto condanniamo alla punizione della nostra eterna e depressa solitudine.

Nella società individualizzata, infatti, siamo tutti depressi e frustrati, incapaci di riconoscere nel bene e nella libertà dell’altro il nostro appagamento, obbligati a un’esposizione di potere che ci denigra invece di elevarci, che ci rende più simili a bestie spietate che a eroi del nostro tempo.

Di tutto questo non è causa la scuola, che urla dal vuoto in cui è precipitata per ricevere un soccorso lontano dal divenire, poiché lontana è la consapevolezza della miseria umana individualizzata in una società pervasa dal senso di provvisorio e precario esistenziale e globalizzato in cui ha chiuso il proprio spirito libero.

Non la scuola, ma la condotta umana nella società occidentale ha delegato al silenzio, all’indifferenza e all’oblio la propria funzione educativa. Il panico e la paura divengono strumenti di controllo per i violenti e i più deboli (o quelli che semplicemente “non ci piacciono”) divengono le vittime in una realtà nella quale, a dire il vero, l’esistenza dei deboli indica la fragilità dei violenti e la loro caducità essendo lo specchio di quelle paure e inadeguatezze che sono incapaci di ammettere. Non la scuola, dunque, è colpevole, ma la società individualizzata che crea mostri e paure mentre insegna ad aggredire invece di amare.

Loredana De Vita