Non si può che guardare e riguardare con crescente apprensione la foto di quei ragazzi che scattano selfie dinanzi alla fossa in cui è stato sepolto il corpo assassinato di un loro coetaneo. Non importa chi sia e perché sia stato assassinato, questa è un altra storia. Quello che lascia senza parole è il gesto in sé: scattare dei selfie come se ci si trovasse a visitare un monumento, o a fissare nella memoria un ricordo gioioso da non dimenticare.
Il turismo del macabro non è una novità, e comincia ad esserlo sempre meno l’immortalarsi dinanzi al dolore altrui. Il bisogno di dire “io c’ero”, senza percepire l’azione nel momento della sua gravità. In questo gesto, a guardarlo “innocente” per l’immediatezza e la tranquillità dei convenuti, c’è molto di più del vuoto di emozioni. C’è molto di più del bisogno di mostrarsi. C’è molto di più della macabra passione per un momento di notorietà. In realtà, sembra che quei giovani più si esibiscano, più abbiano niente da mostrare, se non il vuoto incredulo sul senso della vita e della morte. Più si espongono, meno hanno da dire. Più si lasciano prendere dall’attimo “sfuggente”, più si calano nella fossa dell’eterno niente. Perché niente è quello che hanno da riflettere e sull’evento e sul loro gesto.
Questo fa paura. La naturalezza di un gesto che mostra mancanza non solo di rispetto, ma di consapevolezza della vita e della morte, del dolore come della gioia, di ciò che è opportuno e di ciò che non lo è. Ignari complici del no-sense che dilaga. Sublimi attori di un protagonismo che li sottomette e li perseguita. E’ questo che fa davvero paura!
C’è un riflesso in quella foto, non si può vedere a occhio nudo, ma c’è. E’ lo specchio di una società che toglie valore alle emozioni del singolo e alla compartecipazione alle emozioni di ciascuno. E’ l’immagine di un modo di essere indifferenti al bene o al male che scaturisce dalla distanza rispetto alla realtà degli altri. E’ la dimostrazione della tensione verso il vuoto di un tempo e di un’umanità che spinge i ragazzi a non cercare nulla né dentro né fuori di sé. Viene rapidamente nel pensiero la società (apparentemente) edonistica esposta da A. Huxley nel suo eccellente “Brave New World”. Una società che basa il proprio benessere sull’egoistico piacere per se stessi. Una società in cui gioia, dolore, amore, fede, libertà, sentimenti, rapporti, cultura si esauriscono nell’attimo presente e non edificano, né mirano a farlo, né nel presente né nel futuro. Una società senza tempo, dove lo spazio esistente è solo quello fisico tra ciò che ci appartiene e ciò che ci apparterrà. Una società in cui si educa all’abolizione dell’affettività e della cultura, dei rapporti e dei significati.
In fondo, proprio questo è quanto si osserva rappresentato in quell’immagine, che non è la prima del genere né sarà l’ultima. E’ una deriva, la completa liquefazione del senso. Non ci si può non chiedere da dove nasca questa deriva. Non possiamo non interrogarci sulle responsabilità di una società così costituita. Non possiamo non dare delle risposte mettendo a tacere tra paura di dare espressione a tutti gli interrogativi dei nostri ragazzi e ai nostri stessi per paura di doverci assumere delle pesanti responsabilità. E’ necessario dare delle risposte, arginare la deriva fino a che si è ancora in tempo.
Oggi, si fa tanto un parlare dell’educazione all’affettività nelle scuole, in famiglia, ovunque… se ne parla tanto, ma ben poco si fa poiché si chiude il discorso solo su certi aspetti ritenuti “scabrosi” da molti e che invece, fanno parte del nostro quotidiano. Inoltre, educare all’affettività, non è solo una questione di “generi”, non è solo una questione politica, ma una questione “umana” che non può più essere rimandata. Lo dimostra, tra le altre, questa foto di indifferente presenza in un sistema di valori e priorità che si spegne.
Educare all’affettività è un imperativo in un tempo di perdita di valori e di significati; è un obbligo se non vogliamo trasformarci in una società apparentemente edonistica, ma in cui il gusto per il piacere di se stessi si trasforma nella peggiore forma di schiavitù. Perché “essere solo per sé stessi” è schiavitù, è privarsi dello scambio, del confronto, nell’autocompiacimento di quell’egoismo di cui diventiamo servi.
Nella società edonistica di Huxley, infatti, tutto esisteva nella presunzione di essere liberi, nonostante la suddivisone in categorie e le tecniche di controllo psicologico che eliminavano ogni possibilità di scelta personale ed individuale.
La nostra società, come quella di Huxley, è ormai sul baratro della perdita totale di relazioni vere, di emozioni, di confronto, di scelte; è una società sull’abisso dell’egoismo in cui la libertà è abusata ma non vissuta, in cui, in realtà, si è privi di libertà.
di Loredana De Vita