di Diego De Vellis
Essere di una nazione non è semplicemente nascerci. È la storia di un’appropriazione.
Così “Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia” di Marco Armiero, professore e storico dell’ambiente, è il racconto di come dall’unificazione del 1861 il “potere politico” si sia occupato della nazionalizzazione delle montagne, trasformandole in risorse da sfruttare.
“Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia”, in uscita da pochi giorni in Italia con Einaudi, è un lavoro che l’autore aveva già pubblicato in Inghilterra nel 2011 grazie ad un editore di Cambridge specializzato in “Storia Ambientale”, infatti il libro è l’occasione per indagare le relazioni intime che nascono tra una nazione e l’ambiente che la ospita, il metodo d’indagine è quello proprio dello storico dell’ambiente che ha sempre presente quanto, nel raccontare un evento, sia centrale ed essenziale la dialettica tra i fattori.
La storia dell’ambiente mette in evidenza quanto sia monca una narrazione che prescinda dalle relazioni che intercorrono tra società e natura, rifiutando la dicotomia si recupera una sana identità, e in effetti l’essere umano appartiene alla natura tanto quanto alla società, e per questo motivo che inconsapevolmente – ma naturalmente – funge da spia, da termometro di questa relazione (dialettica).
Oggi sempre di più ce ne rendiamo conto, infatti a causa di scelte miopi, inquinando, distruggendo, ipotecando il futuro dell’ambiente in cui viviamo, danneggiamo prima di tutto l’uomo, eppure le regole di uno sviluppo sostenibile, teorizzate già nel 1979 dal filosofo tedesco Hans Jonas in una delle sue opere più famose: “Il principio responsabilità”, ancora non sembra che abbiano trovato corrispondenza nelle scelte politiche ed economiche.
Probabilmente perché la ripartizione dei costi ambientali così come dei benefici, non avviene in modo equo tra le classi sociali, sono sempre i più deboli a pagare il prezzo più alto. Questa riflessione è il tema centrale della “Giustizia Ambientale” concetto sviluppato in America negli anni Settanta.
Ne abbiamo discusso con il Prof. Marco Armiero, primo ricercatore presso l’istituto di “Studi sulle Società del Mediterraneo” al C.N.R. di Napoli, che in questi ultimi anni ha lavorato a Yale, a Stanford, a Berkeley, in Spagna all’Università Autonoma di Barcellona, in Portogallo al Centro di Studi Sociali di Coimbra.
Insomma una di quelle persone con la valigia sempre pronta per un altro viaggio, e sì perché nel suo caso non si può parlare di cervello in fuga ma, come ironicamente ci ha detto, di “fegato in viaggio”. In effetti per un ricercatore la mobilità è fisiologica, è la fuga ad essere patologica, quella strana condizione, tutta italiana per la quale chi sceglie di viaggiare rendendo più aperto il suo lavoro, incontra poi non poche difficoltà nel tornare.
Di questo e non solo si è arricchita la chiacchierata con il Prof. Marco Armiero che ci ha incontrato al C.N.R. tra un viaggio e l’altro, è proprio il caso di dirlo in quanto sabato mattina partirà nuovamente, destinazione Stoccolma dove andrà a dirigere l’Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology.