Attualità

Sono i giovani a fuggire dall’Italia o è l’Italia che sfugge i giovani?

Secondo l’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, ogni anno 120 mila italiani emigrano all’estero (ma il numero potrebbe quasi triplicarsi considerando quelli che vanno via senza lasciare traccia): “è come se ogni anno una città come Bari improvvisamente si svuotasse “(Il Sole 24 ore).

Quasi la metà degli espatriati è costituito da giovani tra i 18 e i 34 anni: nel 2022 ben il 44% del totale ( più 2% rispetto al 2021), con un tasso di emigrazione nell’ultimo decennio più che raddoppiato per i neolaureati. Un dato davvero preoccupante, come ha sottolineato recentemente Marco Impagliazzo.

Si tratta infatti di giovani altamente formati (almeno 1 su 3 secondo  uno studio di Brunello Rosa, docente alla London School of Economics), con un conseguente depauperamento economico per il sistema-Italia di 14 miliardi all’anno (l’1% del PIL); senza contare soprattutto la dispersione di conoscenze e competenze, di capacità di creazione di impresa, di innovazione, di capacità produttiva che la loro emigrazione comporta per il Paese.
La fuga dei cervelli del resto è un fenomeno internazionale , ancora più massiccio in altri grandi paesi europei, come Francia e Germania.

Ma come scrive Giulia Pastorella nel suo Exit only. Cosa sbaglia l’Italia sui cervelli in fuga, serve dare voce ai giovani expat  per comprenderne motivazioni ed aspettative. Emergono ragioni di mobilità internazionale, questioni economiche (con stipendi anche di tre volte superiori a quelli italiani), possibilità di finanziamenti statali, standard lavorativi più consoni alla propria formazione; condizioni di welfare, trasporti, verde ottimali. Ma anche una migliore interazione stato-cittadini, e una maggiore facilità sul piano burocratico (pagamento tasse, fare impresa).

In una recente inchiesta dell’Osservatorio Elle Active e di un team di ricerca dell’Università Cattolica  di Milano,  tra le ragioni che spinge i giovani ad emigrare emerge l’aspettativa dei giovani per un lavoro che dia maggiori e concrete opportunità di crescita professionale, culturale e personale, di costante aggiornamento professionale, di ottenere prestigio sociale. Quindi più che necessità economica, la spinta a emigrare è determinata da spirito di intrapresa, attitudine al rischio e coraggio di una sfida appagante e coerente con i propri valori.

Quello che colpisce nei racconti dei giovani expat è infatti il felice stupore per aver trovato all’estero una cultura del lavoro più rispettosa e inclusiva: realtà universitarie ed aziendali – peraltro ben integrate – che favoriscono il lavoro degli studenti con una favorevole flessibilità; stage ben retribuiti, contratti di ricerca senza situazioni-capestro (lavoro serale o nel weekend), attitudine ad affidare loro mansioni di responsabilità. In questi ambiti i giovani expat sperimentano e apprezzano particolarmente: la comprensione e la cura della propria persona, la possibilità di integrare passione e studio, l’inserimento e la crescita dentro le aziende, l’inclusività (non a caso inserita dal Talent Attractivness Index dell’Ocse come possibile criterio di scelta).

Viceversa in Italia c’è uno stallo intergenerazionale che ostacola i giovani nell’espressione delle proprie potenzialità. Come ha detto il Presidente Mattarella in occasione della presentazione del “Rapporto italiani nel Mondo 2023”: “Quando non si riesce a riportare nel nostro Paese professionalità, esperienze, risorse umane, è l’intera comunità che viene impoverita“.

Certo, siamo l’unico Paese europeo in cui negli ultimi 30 anni sono scesi gli stipendi; ma non è soltanto un problema di mancanza di occupazione o di prospettive insoddisfacenti, quanto di fenomeni sociali e culturali che si stanno consolidando.

La povertà educativa ad esempio – fenomeno in Italia in enorme crescita già a partire dai primissimi anni di vita dei bambini – mette in discussione il benessere delle nuove generazioni, impattando notevolmente anche sulla capacità dei minori di immaginare il proprio futuro e di sperimentare parità sociale.

I dati ISTAT sul tessuto sociale italiano raccontano di altissimi tassi di dispersione e abbandono scolastico, di un sistema educativo che produce scarsità di laureati, del Paese europeo con il più alto numero di Neet: 3 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non si formano (il 29,4% di giovani, contro una media europea del 17,6%.).

E ancora, nel 2024 il 71% dei ragazzi e il 62% delle ragazze italiani tra i 18 e i 35 anni, vive ancora in casa con i genitori e a loro carico (a causa di disoccupazione, precarietà, bassi salari, alti costi degli affitti e della vita, carenza di welfare per le giovani coppie); ed i giovani italiani sono i più lenti in Europa ad andare a vivere per conto proprio (in media a 30 anni, contro la media europea di 26,4 anni).

Insomma l’ormai cronica fuga dei cervelli italiani è un sintomo, e non la causa, del declino del nostro Paese, che non solo non valorizza, ma semmai mortifica – anche con politiche clientelari – i giovani talenti che pure esprime.

Verso tutti questi giovani, che pagano il prezzo più alto delle crisi sistemiche del Paese in termini di povertà assoluta (+4,6% rispetto a 10 anni fa), di isolamento e di riduzione del potere di acquisto – ma anche di contesto sociale e culturale che li infragilisce e gli impedisce di progettare la propria vita – ci sarebbe bisogno anzitutto di attenzione, ascolto e considerazione.

In controtendenza rispetto alla vigente cultura gerontocratica che li spinge ad andarsene, avrebbero diritto da una parte ad un credito di fiducia da parte della società civile e dei media;  e dall’altro a specifiche politiche e misure di sostegno: un maggiore monitoraggio del territorio per prevenire e contrastare la dispersione scolastica giovanile, progetti di formazione per facilitarne l’ingresso (o il ritorno) nel mercato del lavoro, agevolazioni delle assunzioni attraverso una riduzione delle tasse sulle imprese (come in molti Paesi esteri, terre di approdo degli expat italiani).

Un Paese che voglia che i propri giovani talenti – una vera ricchezza umana e culturale – non emigrino, dovrebbe occuparsene seriamente, rimuovere gli stereotipi culturali, le disparità di genere e le diseguaglianze che li colpiscono (ad esempio verso i giovani immigrati), pensare invece a come farli crescere e dare loro quelle opportunità, oggi purtroppo assenti.

Ne va del futuro dell’intera società.

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Mario De Finis

Docente, formatore e autore di testi in ambito universitario. Credo che promuovere insieme una cultura inclusiva e di pace, ispirata da amicizia e solidarietà, possa cambiare la vita e la storia. A partire dai giovani e dai più fragili.

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