Stato unitario o federale?

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Le Regioni sono state istituite nel 1970 e la loro nascita aveva creato molte speranze in ordine a una maggiore e migliore capacità della Stato, nella sua nuova veste regionalista, di intervento finalizzato a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Anzi, dopo un po’ di anni, a fronte del crollo dei partiti tradizionali di ispirazione nazionale, prese piede una nuova idea politica. Una idea politica che trovava la sua centralità in una dilatazione accentuata delle potestà legislative in capo alle Regioni, al punto da prevedere una Stato federalista e non più unitario. In buona sostanza, si sosteneva che i vari problemi che attanagliavano il Paese avrebbero trovato una pronta ed equa soluzione, almeno in buona parte, investendo di molti più poteri di intervento le Regioni, ritenute per la loro natura vicine alle popolazioni e, quindi, maggiormente in grado di emanare provvedimenti efficaci e celeri.

A questo proposito, vorrei ricordare che l’ Assemblea Costituente fu molta attenta a non dare un particolare risalto costituzionale alle varie “autonomie territoriali” , in quanto era consapevole della difficile storia unitaria del Paese che aveva visto solo con il fascismo una nazionalizzazione delle masse e, pertanto, l’unità del Paese era stata sciaguratamente identificata con una dittatura. Potremmo dire, in altre parole, che i Costituenti, e la classe dirigente degli anni del dopoguerra,  si resero conto che occorreva ancora “costruire gli italiani”.
Erano consapevoli dei persistenti divari territoriali del Paese e che in primis occorreva affrontare la questione meridionale. Tanto è vero che qualche significativo risultato fu raggiunto in ordine ai divari tra Nord e Sud del Paese.
Questo fu reso possibile dal fatto che, pur in presenza di fortissime divisioni ideologiche, quasi tutti i partiti politici avevano una dimensione nazionale e la loro progettualità aveva come fondamento l’Italia in quanto tale, indipendentemente dalle indubbie criticità che gli stessi partiti presentavano.
Nei primissimi anni novanta, abbiamo avuto il verificarsi di una miscela esplosiva, in quanto alla cosiddetta “tangentopoli”  che ebbe come effetto l’azzeramento di un intero sistema politico, si  venne a sommare anche il crollo di un sistema ideologico internazionale, il comunismo, che ebbe un radicale impatto nella nostra politica nazionale.
Il risultato di tutto ciò fu che le istanze, le richieste che venivano dalla opinione pubblica non venivano più recepite da una politica avente una strategia politica di carattere nazionale. Questa caratteristica, anche se in misura diversa, connotava tutti i partiti. Tanto è vero che la riforma costituzionale che concedeva maggiori poteri legislativi alle Regioni venne varata dallo schieramento di centro sinistra. Una manovra politico- costituzionale che conteneva la non dichiarata illusione che ciò avrebbe depotenziato la richiesta spiccatamente federalista dello schieramento avverso.
Alla fine, ci siamo incamminati su questo percorso di autonomia regionalista e di strada ne abbiamo già fatta tanto. Tant’è che si può già fare un bilancio politico in ordine ad una migliore gestione della cosa pubblica.
A parere di chi scrive, il bilancio è in larga misura negativo per una serie di ragioni.
Intanto, è aumentata a dismisura la burocrazia, in quanto a quella tradizionale delle Stato centrale si sono aggiunte le burocrazie di ben venti Regioni. Sono aumentati i centri di spesa e questo, contrariamente a quanto si sbandierava per ottenere il federalismo, ha aumentato la corruzione. Anzi, quest’ultima, come evidenziato dai tanti procedimenti penali, ha assunto soprattutto una dimensione a carattere regionalistico. Ma l’aspetto che ritengo più grave di tutti sta nel fatto, in assenza di uno vero spirito nazionale, di una vera e propria gara da parte delle Regioni, ognuna per proprio conto, ad accaparrarsi maggiori finanziamenti da parte dello Stato centrale.
Purtroppo, da questo punto di vista c’è addirittura un aggravamento delle cose, tenuto conto che sta per essere approvato il regionalismo differenziato che costituirebbero un definitivo tassello alla creazione di uno Stato arlecchino.
Una prova evidente di questa involuzione la abbiamo avuta nella gestione della pandemia. Una vera e propria cacofonia istituzionale, nella quale su questioni importanti in ordine alla difesa dei cittadini dal Covid 19, le Regioni andavano in ordine sparso e il Governo nazionale, pur avendo operato sostanzialmente bene, ha rinunciato, però,  ad avvalersi in questa fase emergenziale, dalla quale non siamo ancora usciti, della facoltà, che pure è prevista, di avocare a sé tutti i provvedimenti del caso necessari. Di fronte alla pandemia, in considerazione dei venti sistemi sanitari che sono stati istituiti nel corso degli anni di autonomia legislativa regionale, era più che necessario che il Governo assumesse in pieno tutte le sue prerogative.
Ancora adesso, per  l’apertura delle scuole, una questione estremamente importante e delicata sotto tutti i profili, ogni Regione sta iniziando a muoversi autonomamente.
Ecco perché è necessaria una inversione di tendenza relativamente alle autonomie regionali che risultano davvero anacronistiche raffrontandole, invece, in una ottica politica di carattere europeo. Nel senso che le azioni politiche possono avere una concreta efficacia solo se hanno una dimensione quanto meno europea, altro che le roboanti prese di posizione dei vari viceré, perché questo sono diventati, dei Presidenti di Regioni, autonominatisi Governatori, accentuando il carattere notabiliare della nostra politica.
Non si salva da nessun problema alcuna Regione d’Italia, se il problema non viene affrontato in una dimensione nazionale.
Le resistenze a questo cambiamento saranno fortissime, perché si è creato un ceto politico a forte radicamento regionalistico con conseguente pletora di funzionari, tecnici e altro ancora. Gli stessi partiti che per statuto dovrebbero avere una caratura nazionale ed europea, in realtà hanno miope ricadute campanilistiche, e questo contribuisce a impoverire ulteriormente una politica che già di per sé è carente di pensieri lunghi e profondi.
Ma il cambiamento è improcrastinabile, se non vogliamo conti
di Vincenzo Vacca