Quello che colpisce e ferisce molto nella storia di Tiziana, giovane donna di Pozzuoli che si è suicidata dopo che alcuni suoi video hard hanno girato sulla rete in lungo e in largo, non sono i suoi video hard, ma il fatto che siano ancora in rete. Sono in rete e conquistano molte visualizzazioni.
In questo momento, il punto non è il per come e il perché Tiziana si sia esposta a fare quei video, né se fosse informata o meno della loro diffusione in un cerchio ben oltre il privato ristretto, ma il fatto che ci siano persone che continuano morbosamente a guardarli.
Morbosamente, certo, perché solo il disprezzo morboso può indurre ad appagarsi guardando dei video di cui si sa essere causa di profondo dolore, disagio e morte. Non esiste rispetto per i vivi, è facile calpestare la dignità di chi non può ritrattare né difendersi.
Tiziana non può difendersi più e sua madre ci prova con ogni respiro e con le sue ultime lacrime, ma inascoltato resta il suo grido, negato il suo diritto al silenzio.
Non esiste il rispetto per i morti, come se la morte non fosse il segno di un dolore profondo per la dignità calpestata.
Tiziana si è uccisa, infine, sperando così di essere dimenticata e di spegnere quel fuoco che la dilaniava. Moralmente morta la famiglia di Tiziana, vittime di un dolore e un sopruso che le depreda persino del dolore del lutto e del tempo della sua rielaborazione.
Inutili le richieste di una madre disperata affinché vengano cancellate le tracce di quei filmati che hanno distrutto la vita di sua figlia e la sua; nulla si può fare davvero quando si resta prigionieri della maglia stretta e soffocante della rete.
Ci sono ingranaggi incomprensibili e più forti nei quali, una volta entrati, sembra non poterne più uscire, perché è proprio sulle visualizzazioni e sui “mi piace”, sui commenti, spesso offensivi, che si fa “audience” in rete.
Chi commenta o visualizza, a sua volta prigioniero ignaro dell’ingranaggio, pensa di valere qualcosa di più perché ha ricevuto quei consensi e quelle approvazioni che probabilmente non riceve, o non è in grado, nella vita reale; intanto, chi è dietro la rete, si arricchisce dell’ignoranza e della debolezza di quanti si sentono superiori all’etica personale e al rispetto per gli altri e su questo costruiscono il proprio patrimonio.
Che cosa resta?
Un filmato hard che per sempre resterà impresso negli occhi di chi lo guarda senza pudore per la morte.
Che cosa resta?
Una madre distrutta che sa che sua figlia valeva molto di più di quel filmato, ma non potrà più mostrarlo.
La morbosità di chi guarda, novelli vampiri virtuali, è pari all’orrore e alla nefandezza di quegli istigatori al suicidio che ora simulano di non essere responsabili.
Quando si tratta di donne che espongono il proprio corpo, senza giudicare se questo sia un bene o un male, sembra che tutto il contorno sparisca; si vaporizzano le cause, le circostanze, le pressioni, le richieste opprimenti.
Dietro quel corpo esposto c’era una donna e una storia che forse in pochi si sforzeranno di conoscere; dietro quel suicidio c’è la complicità del ludibrio di chi ha sfruttato la debolezza, la fragilità o, chissà, persino una scelta che non si deve per forza comprendere e condividere, ma che si deve rispettare.
Chi continua a spiare nel privato di Tiziana per giudicarla non può che essere un vampiro, succhiatore di sangue, che vive nelle tenebre di cui si circonda, tenebre reali o virtuali, perché di certo nel quotidiano non ha né spazio né luce per respirare.
Così vive chi del sangue altrui si nutre e di esso gioisce
di Loredana De Vita
This post was published on Nov 7, 2016 18:38
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