Ricoverata e denudata in un reparto maschile, senza alcun riguardo per la sua dignità né per la sua identità sessuale, soltanto perché questa non corrisponde al nome che era scritto sulla sua carta di identità. È la triste avventura di una donna transessuale, che noi abbiamo deciso di chiamare Maria, per non aggiungere al sopruso subito l’onta ulteriore di essere identificata con uno spersonalizzante “la trans”.
Una definizione generica, forse troppo, riduttiva, addirittura offensiva: come se l’identità di una persona potesse essere ricondotta a una sola parola, una sigla, un’etichetta vuota. O, peggio, a un nome. Perché è questo che è accaduto quando la paziente è arrivata al San Giovanni Bosco per un ictus: leggendo il nome maschile scritto sulla sua carta di identità, corrispondente di fatto ai genitali di Maria, il personale dell’ospedale l’ha ricoverata in una stanza condivisa insieme a 4 uomini. Lì Maria è stata spogliata senza riguardo, per essere lavata e svolgere le quotidiane abluzioni. Per fortuna con lei c’erano Daniela e Rosa, due transessuali che, venute a conoscenza del fatto, sono corse in ospedale per prestarle assistenza. Ai nostri microfoni il loro racconto.
“Abbiamo dovuto prendere una coperta per improvvisare un paravento a una persona che è stata denudata davanti a quattro uomini, e senza alcuna premura. Una cosa che mi ha fatto sentire offesa, frustrata, ferita nella mia dignità“ racconta Daniela Falanga, delegata alle politiche trans per Arcigay Napoli. Immediatamente Daniela e Rosa hanno discusso la questione con i responsabili della struttura ospedaliera, trovando insieme a loro un compromesso: “Fortunatamente tutti i responsabili della struttura sono stati molto comprensivi, e hanno cercato di venirci incontro come potevano” spiega Daniela. Maria non sarà spostata in un reparto femminile, dove comunque la vista del suo corpo nudo potrebbe provocare imbarazzo nelle altre pazienti, così come accade per lei nel reparto maschile, ma durante le operazioni di pulizia sarà montato un paravento che la proteggerà dagli sguardi indiscreti, tutelando la sua intimità e rispettando la sua privacy.
Tutto questo perché, come spiega ai nostri microfoni Antonello Sannino, presidente Arcigay Napoli, non esiste ancora una legge nazionale che stabilisca le buone pratiche che il personale medico e assistenziale deve adottare nei confronti delle persone transessuali. Uomini e donne a cui è negato molto spesso qualunque riconoscimento e diritto a una vita normale, come quella di tutti gli altri. “La violenza sia fisica che verbale, purtroppo, ancora oggi, è all’ordine del giorno” spiega Daniela. “Io sono stata fortunata, perché nel mio percorso per diventare donna ho avuto vicino mia madre, che a un certo punto mi ha capita e ha cercato di aiutarmi”. La stessa fortuna non è toccata invece a Rosa, che è stata cacciata di casa dai suoi genitori all’età di 16 anni, così come è successo anche a Maria, che anche oggi, nel letto di un ospedale, si trova costretta a pagare un prezzo ingiusto per la sua “diversità”.
“Per ora Maria rimarrà nella stanza in cui si trova ora, anche perché gli altri pazienti ricoverati si sono dimostrati molto disponibili e comprensivi nei suoi confronti” spiega Daniela. “Ma” prosegue, “trovo incredibile e assurdo che in un luogo in cui bisognerebbe aiutare le persone, come un ospedale, accadano ancora queste cose, e che non ci sia uno spazio in cui accogliere i pazienti transessuali rispettando la loro privacy e le loro esigenze”. “È una battaglia che tutti noi dobbiamo combattere, insieme, per ottenere dei risultati, come sta avvenendo in altri paesi del mondo, dove effettivamente esistono o sono in fase di elaborazione delle leggi specifiche che garantiscono il rispetto dei diritti delle persone transessuali” conclude Sannino. Purtroppo, a oggi, la strada per l’integrazione sembra essere ancora lunga e irta di ostacoli. Come dimostra l’ “incidente” di cui Maria è diventata, suo malgrado, vittima e protagonista.
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