L’intervista esclusiva di Daniela Merola a Beatrice Tauro, autrice del romanzo “Tutto questo mare fra di noi”.
Nata e cresciuta in un borgo nel cuore dell’Abruzzo, Beatrice Tauro a diciannove anni si trasferisce a Roma per frequentare l’università e qui si stabilisce per amore e lavoro. Appassionata di viaggi, lettura e scrittura, predilige la narrativa contemporanea e il confronto interculturale.
Particolarmente appassionata di letteratura femminile, anche di culture e paesi diversi e distanti. Da ottobre 2015 cura il blog “Con altre parole” sul sito di Arabpress dove racconta il mondo arabo e islamico attraverso le parole degli scrittori occidentali. Ha collaborato con la rivista online Oubliette Magazine dove ha pubblicato recensioni di libri di autrici appartenenti all’area mediorientale e africana. Ha iniziato da poco a collaborare con il sito online Nuove Pagine dove pubblica recensioni di autrici italiane e straniere, prevalentemente contemporanee.
Di recente ha avviato la collaborazione con altre due testate online, Wordnews e Intersezionale.
A novembre 2016 ha pubblicato il suo primo romanzo “Madri a rendere” (Edizioni Cinquemarzo).
A gennaio 2020 ha pubblicato il suo secondo romanzo “Tutto questo mare fra di noi” (Edizioni Cinquemarzo).
Da alcuni anni svolge attività di volontariato presso il Centro Astalli di Roma dove insegna italiano alle donne africane.
Incontro l’autrice Beatrice Tauro per questa intervista esclusiva.
- Benvenuta Beatrice. Sei una donna molto impegnata nel sociale e una scrittrice molto attenta alle sofferenze umane. Come nasce la tua passione per la scrittura?
BT: La mia passione per la scrittura nasce da un’altra grandissima passione, quella per la lettura. Fin da bambina mi sono sempre immersa, avidamente, nella lettura. Cercavo nei libri nuove storie e nuovi personaggi che ampliassero il mio piccolo mondo. La lettura mi ha aperto la mente, mi ha fatto conoscere realtà diverse e distanti, soprattutto quando ho iniziato a esplorare autori appartenenti ad aree geografiche lontane dalla nostra, anche da un punto di vista culturale. Mi sono appassionata alla letteratura sudamericana prima e poi a quella nord africana e mediorientale. Da adolescente mi dilettavo nella scrittura di qualche verso poetico, ma il vero sogno nel cassetto era quello di scrivere un romanzo. Ma la scrittura non la si può comandare a bacchetta, è una ispirazione che quando arriva puoi – e devi – assecondare. E allora ho dovuto attendere molto tempo prima che l’ispirazione giusta arrivasse a bussare alla porta della mia consapevolezza, portandomi le idee sulle quali ho poi costruito il mio primo romanzo. Da allora la scrittura è diventata una urgenza, un rifugio, un momento tutto mio nel quale riverso passione, cura, evasione.
- Lo scambio interculturale è fonte di principale ispirazione. Cosa significa per te integrazione e apertura verso il mondo islamico?
BT: Ho sempre creduto che l’umanità appartenga ad un’unica razza (quella umana appunto), ciò che ci differenzia è il background culturale, i condizionamenti ambientali, sociali e religiosi. Partendo da questo convincimento, ho sempre avvertito una profonda curiosità per ciò che è diverso da me, ho sempre cercato di conoscere l’altro, scoprire il suo mondo. L’approdo allo scambio interculturale è la logica conseguenza di questa modalità di relazione con il mondo che ci circonda. E come dici tu, diventa fonte di principale ispirazione. In questo contesto più ampio si inserisce la mia passione per il mondo islamico, al quale mi sono avvicinata in seguito ad alcuni viaggi fatti in paesi di religione musulmana (Marocco, Tunisia, Egitto). Mi sono interrogata su una religione che in apparenza si pone in forte antitesi con le coordinate culturali del mondo occidentale e ho iniziato a informarmi, leggere, ascoltare. In questo devo ringraziare anche la testata “Arabpress” che mi ha dato l’opportunità di scrivere moltissimo di mondo arabo e islamico, letto attraverso le parole di autori occidentali. Non credo sia necessario specificare che cosa significhi per me integrazione e apertura verso il mondo islamico: credo invece che integrazione e apertura vadano declinate verso tutto ciò che è diverso da noi e lo si può fare se ci si spoglia dei pregiudizi, se ci si mette in ascolto, se si ricorre allo spirito critico e non ci si lascia manipolare dalle narrazioni mainstream che troppo spesso veicolano strumentalmente alcuni concetti. Il caso dell’Islam è emblematico in tal senso: dopo l’11 settembre tutti i musulmani sono stati etichettati come terroristi, tutte le donne musulmane come schiave sottomesse. Dobbiamo discernere, analizzare e fare i necessari distinguo in un ambito complesso e, questo sì, ricco di contraddizioni.
- Sei impegnata a scrivere su varie testate per raccontare prevalentemente il mondo femminile mussulmano, mettendo in risalto le grandi sofferenze e discriminazioni che molte donne vivono. Cos’è che maggiormente ti sconvolge riguardo la condizione femminile?
BT: mi sono sempre appassionata di condizione femminile, fin da quando, adolescente, aderivo ai movimenti femministi. Noi donne occidentali ci siamo in un certo senso arrogate il primato di emancipate, rispetto a donne di altri paesi che vivevano condizioni sociali ed economiche già di per sé discriminatorie. Tuttavia anche nel mondo islamico esistono movimenti femministi che lottano per l’emancipazione delle donne. Alcuni di questi movimenti non hanno, necessariamente, lo stesso obiettivo che magari contraddistingue i movimenti delle donne occidentali e noi dobbiamo rispettarli. Il problema non è la religione, a mio avviso, quanto invece i condizionamenti della società che spesso, in molti paesi, si nasconde dietro alla religione. Altro e più grave discorso è quello relativo alle sofferenze che vengono inflitte a molte donne con il ricorso alle pratiche ancestrali e cruente di mutilazione genitale. Ancora in molti paesi si tratta di una pratica messa in atto ai danni di bambine di sei, otto anni per assicurare loro il rispetto che la loro società impone. Paesi come l’Egitto, che pur vanta una situazione culturale emancipata, è quello che ha il più alto numero di MGF (mutilazioni genitali femminili) al mondo, nonostante sia stata approvata una legge che specificatamente le condanna. Questi fenomeni, unitamente alle difficoltà di accesso di molte donne al sistema dell’istruzione sono gli elementi che maggiormente mi preoccupano. Permettere alle donne di accedere ad ogni ordine e grado di istruzione è l’unico modo per garantire loro l’emancipazione, il riscatto da una società patriarcale e maschilista. E questo non è vero solo per i paesi di religione musulmana, ma anche per molti altri paesi.
- Il tuo secondo romanzo si intitola “Tutto questo mare fra di noi”, dove racconti una storia d’amicizia e rinascita molto struggente fra la protagonista Raffaella e Amina, una donna egiziana che fugge dalle angherie che subisce nel suo Paese, sperando di trovare pace in Italia. Il destino però è crudele e arriva dappertutto. Da dove nasce l’ispirazione per questa storia bellissima?
BT: Il tema delle migrazioni mi ha sempre affascinato, anche per quella passione dello scambio inter culturale di cui parlavamo prima. Tuttavia, l’ispirazione per questa storia nasce da una esperienza personale molto profonda e toccante che ho avuto modo di vivere frequentando una casa di accoglienza per donne rifugiate dove ho svolto volontariato per il tutoraggio di italiano. Ho iniziato a conoscere queste donne, alcune giovanissime, che arrivavano dalla Nigeria, dal Congo, dal Corno d’Africa e dopo l’iniziale, e naturale, diffidenza, alcune di loro si sono aperte, si sono confidate, raccontandomi le terribili esperienze vissute sia nel loro paese e soprattutto durante il viaggio che le ha portate in Europa. Ascoltare dalla viva voce delle protagoniste testimonianze crudeli e disumane è cosa ben diversa che leggerne sui giornali; vedere le cicatrici sui loro corpi e conoscerne l’origine è un’esperienza che personalmente mi ha segnata molto. Quando uscivo da questi incontri spesso rimanevo in macchina, a piangere per loro, ma anche per noi che non riusciamo ad ascoltarle e a comprendere fino in fondo le ragioni che le spingono ad attraversare il deserto o a salire su quei barconi fatiscenti che affondano alla prima onda grossa. Ho sentito quindi il bisogno di costruire su queste testimonianze una storia che fosse in qualche modo rappresentativa di ciò che tante “Amina” vivono ogni giorno e a fronte delle quali ci sono altrettante “Raffaella” pronte ad accoglierle.
- Tu racconti di storie di migranti e di minori non accompagnati anche in questo libro, parli soprattutto di esseri umani sulla cui pelle lucrano in tanti. Ma grazie ai centri di accoglienza e ai mediatori culturali ci può essere un futuro dignitoso per chi arriva in Italia. L’amicizia tra Raffaella e Amina è un grande esempio di complicità e generosità umana. Le due donne sono alla ricerca di un riscatto e hanno coraggio da vendere. Qual è il messaggio che hai voluto trasmettere?
BT: le due protagoniste del romanzo sono molto coraggiose e, ognuna a suo modo, sono alla ricerca di una forma di riscatto. Lo fanno fuggendo e cercando di costruirsi una nuova vita in un altrove diverso. Credo molto nella possibilità e capacità delle donne di reinventarsi l’esistenza, di voltare pagina e ricominciare. Un termine che va molto di moda in questo periodo, ma che appare calzante in questo contesto è proprio la resilienza, quella capacità di rinascere dopo un trauma, di ricostruire sulle macerie. È quello che fanno Raffaella e Amina, ma è anche quello che fanno le protagoniste del mio primo romanzo “Madri a rendere”. Direi quindi che è una mia poetica, quella cioè di credere in una seconda possibilità. In definitiva direi che il messaggio è proprio questo: non bisogna mai arrendersi, bisogna lottare e cercare la propria strada, anche a costo di cambiare totalmente la rotta della nostra esistenza.
- Il titolo del libro “Tutto questo mare fra di noi” racconta tanto. Davvero c’è tanta distanza tra i popoli?
BT: Il titolo è tratto da una frase che pronuncia Amina, la quale vuole sottolineare appunto la distanza culturale che c’è fra il suo paese e l’Europa. Tuttavia, il mare, che in qualche modo è anch’esso protagonista del romanzo, ha per me un altro significato: da sempre il mare è stato mezzo di comunicazione fra popoli distanti, soprattutto il mare nostrum, Mediterraneo, tanto da essere etichettato culla della civiltà. Il mare per me diventa un ponte che unisce e non una barriera, un confine. È la cecità di alcuni politici e la crudeltà di chi lucra sui viaggi della disperazione ad aver trasformato il mare in una frontiera. Cosa che storicamente non è mai stato.
- Causa pandemia non sei riuscita a promuovere bene il tuo libro. Come è stato accolto fino a ora da chi lo ha già letto?
BT: sì, purtroppo il libro è uscito a febbraio 2020 proprio alla vigilia del primo lockdown e quindi non ho potuto promuoverlo come avrei voluto, soprattutto nelle presentazioni dal vivo che sono il momento più bello di confronto con i lettori, quando ci si pone in ascolto delle loro domande, delle loro riflessioni. Tuttavia, devo dire che nonostante i limiti imposti dalla pandemia, ho avuto degli ottimi riscontri da parte di chi lo ha letto. In molti mi hanno scritto: emozione, rabbia, compassione sono i sentimenti che maggiormente sembra suscitare la storia. Molti mi hanno confessato che non avevano idea di quanto dure fossero le condizioni in cui si trovano a vivere i migranti. In generale tutti hanno apprezzato lo stile fluido della mia scrittura e mi hanno ringraziato per aver portato all’attenzione del pubblico un tema così complesso e per molti versi divisivo come quello dell’immigrazione e dell’accoglienza.
- Ti ringrazio Beatrice per questa intervista e ti chiedo di dire tre aggettivi per definire il romanzo.
BT: non è facile sintetizzare un lavoro complesso su un tema così complesso ma ci provo e dico che il mio è un romanzo contemporaneo, inclusivo, resiliente.