Un diamante chiamato Bridgerton

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Lady in the city

Carissimi lettori, adoratissime lettrici, è con piacere immenso che la vostra Lady, con la sua rubrica settimanale, ritorna lì dove tutto è cominciato. RoadTv Italia è da sempre il luogo perfetto, dove esprimermi e comunicarvi le mie riflessioni, per interagire insieme sui temi e le notizie del momento. Premessa necessaria e dovuta, questa, per introdurvi al primo contributo della nuova serie di “Lady in the city”, oggi tutto dedicato a noi “nuove romantiche e nuovi romantici”.

Un diamante chiamato Bridgerton

Alzi la mano, chi non è stato contagiato dalla febbre da “Bridgerton”. Come non appassionarsi alla serie più amata di Netflix, tratta dai romanzi di Julia Quinn, prodotta dalla mitica Shonda Rhimes di Shondaland (Grey’s Anatomy, Private Practice, Le regole del delitto perfetto, Scandal, Inventing Anna) ed adattata per lo schermo, insieme alla Rhimes, da Chris Van Dusen!

Mi preme avvisare chi legge, degli spoilers contenuti in questo articolo, per cui, qualora non conosceste l’esito della seconda serie (approdata in casa Netflix il 25 marzo), fate in modo di leggermi dopo averla “gustata”.

Un diamante chiamato Bridgerton

Vi dico subito che ho apprezzato tantissimo, i primi due capitoli di “Bridgerton”; forse anche più dei romanzi della Quinn, dalle quali prendono le mosse. Sì, perché – diciamoci la verità – con la trasposizione televisiva acquistano di certo un nuovo valore, arricchiti da particolari e scelte narrative diverse e più appetibili, per il grande pubblico. Non che si voglia cercare necessariamente il Premio Nobel per la letteratura, nell’autrice dei libri, ma pur trattandosi di una lettura leggera l’ho trovata per molti aspetti troppo vicina alle vecchie serie “Harmony”; di tutto rispetto, per chi ama il genere, ma – a parer mio – eccessivamente vicina ai cliché della narrativa – per così dire – “romantica”. Il pregio della serie Netflix è quello di aver raccolto un buon soggetto ed averlo trasformato in un prodotto di contenuto; mi riferisco, per puntare l’accento sulla storia, ai temi della condizione femminile ed a quello del multiculturalismo.

Un ottocento inglese estremamente moderno, che suona Miley Cyrus ed Ed Sheeran ai balli e che – grazie alla penna di Lady Whistledown – vive una stagione di pettegolezzi non dissimile da quella raccontata qualche anno fa da un’altra serie “cult”: la statunitense “Gossip Girl”.

Ma veniamo ai temi “caldi” del serial drama britannico.

Un diamante chiamato Bridgerton

E’ al personaggio di Eloise Bridgerton, che viene affidato il compito di raccontare un modo diverso di intendere le donne; complice la libertà concessale in parte dalla sua famiglia, cresce con una mentalità completamente diversa da quella imposta nella Londra di metà ottocento, mostrandosi insofferente alle regole – non scritte, ma di consuetudine – secondo le quali al genere femminile non restasse altro se non studiare per proprio conto, suonare qualche strumento e saper ricamare. Eloise legge, scrive, parla e lo fa rifiutandosi spesso di partecipare ai gran balli, occasioni diaboliche costruite ad arte dalle madri per trovare un uomo cui possano offrire le proprie figlie a mo’ di bestiame, suggellando il patto grazie allo scambio tra una dote ed una casa. La personalità di questa ragazza è uno dei motivi che mi spingono ad amare questa serie; il veder crescere e maturare in lei un’identità femminile ben precisa, una consapevolezza ed una determinazione che la conduce a guardare molto più in là, dei pizzi e dei belletti.

Se ad Eloise è giusto assegnare la palma dell’antesignana femminista, è a Daphne Bridgerton, sua sorella, alla quale va concesso il premio dell’audacia. “Diamante” della prima stagione, eletta da una regina di cui avremo modo di parlare, decisa a trovare un marito che la impalmi nel giro di pochi mesi, trova nel Duca di Hastings non solo il compagno della sua vita, ma colui che la inizierà alla

scoperta del piacere femminile. Vero che gli indugi televisivi e cinematografici si sono rotti un po’ di tempo fa, ma a me ha colpito la naturalezza e la delicatezza con la quale, nella prima stagione (dunque “banco di prova”, per ideatore e produttori), si è riusciti a raccontare il sesso in modo così esplicito. Una delle “attrazioni”, di Bridgerton è proprio questa, che non fa di noi banali voyeurs, s’intenda; ma offre la possibilità, per i giovani che seguono la serie, di riconoscersi e di essere positivamente influenzati dai messaggi importanti che riescono a passare, oltre i costumi e l’atmosfera ottocentesca delle scene. La masturbazione femminile, ad esempio, di cui poco si parla e si scrive (ancora oggi!), se non in determinati contesti. Daphne, ignara di cosa fosse e di cosa fossero i rapporti sessuali, chiede illuminazione proprio a lui, Simon Bassett, il Duca di Hastings, suo amico-complice, prima di diventare suo marito; è così, che scopre quanto la nostra natura ci ha donato e quanto dovrà aspettarsi, da quell’unione d’amore cui è destinata.

Dalla prima, alla seconda serie il passo è breve. Ed è proprio qui, che ritroviamo il Visconte Anthony Bridgerton alle prese con il suo matrimonio. Per puro “dovere”, si è imposto, dopo aver assistito alla disperazione della madre alla morte improvvisa del padre ed aver sperimentato quanto l’amore possa cagionar dolore; in più, da quel momento ed a soli 19 anni aveva dovuto prendere le redini della famiglia e questo l’aveva certamente reso molto più serio e restìo agli affetti. Fino all’arrivo di Kate Sharma. La scena d’amore culminata dopo puntate interminabili ed esasperanti, accompagnate da un carico di energia e tensione sessuale tale da scatenare tempeste e maremoti, è tra le più belle mai portate sullo schermo televisivo (onore agli autori, ovviamente… furbacchioni!) ed anche qui, la donna è protagonista, nel sapersi prendere tutto quel che desidera, senza falsi pudori, o perbenismi di sorta.

Un diamante chiamato Bridgerton

Una società multietnica, quella immaginata da Van Dusen e la Rhimes a Londra, nella prima metà dell’800, dove la regina Charlotte (grande assente nei libri della Quinn), fa da apripista a Lady Danbury prima ed al Duca di Hastings, poi. Sono molti, gli storici ad ipotizzare che la regina, moglie di re Giorgio III fosse di origini africane (da parte portoghese: sembra che re Alfonso III di Aragona abbia avuto tre figli da una donna d’origine africana) ed è partendo solo da questo assunto, che Van Dusen ha ideato gli altri due personaggi afrodiscendenti di enorme influenza ed importanza nella serie. La regina Charlotte (Carlotta di Meclemburgo-Strelitz), è ricordata come una donna progressista, amante delle arti e della musica (suonava perfettamente il clavicembalo), faceva uso del tabacco da fiuto ed era grande sostenitrice dell’educazione culturale delle donne; coraggiosa e sicura di sé, sposò il suo re nel 1761 ed ebbe 15 figli (tra i quali il padre della regina Vittoria), ma dopo i primi 25 anni di serenità coniugale, dovette separarsi dal suo consorte, per i disturbi mentali tristemente noti dello stesso Giorgio III ed il serio pericolo che durante uno dei suoi attacchi violenti, potesse aggredirla. Una storia molto bella e degna di essere approfondita (da Shondaland fanno sapere che lo spin-off dedicato a questa donna straordinaria, amatissima dai suoi sudditi è pronto per le riprese!), ma v’è da dire che le previsioni di questa serie Netflix, quanto all’inclusività al tempo in cui gli eventi vengono narrati, paiono fin troppo rosee, se si considera che la Gran Bretagna abolì la schiavitù solamente nel 1807 (rendendola illegale nelle Colonie a partire dal 1833). Un ottimo messaggio, però. Estremamente attuale.

Quel che sto attendendo oggi, vi dirò, è un’inversione di rotta per Penelope Featherington; che trovi l’amore nei prossimi capitoli televisivi e magari, meno occhi feroci, a trascurarla ed a considerarla alla stregua della tappezzeria delle sale da ballo.

Quanto allo stile… Beh, le passerelle sono entrate in Bridgerton, così come Bridgerton ha influito sui trend di stagione, non c’è che dire (merito certo della costumista Sophie Canal). Guanti, piume, corsetti, accessori, gonne ampie od abiti stile impero, i colori pastello, le scarpe (si pensi alla speciale capsule di Malone Souliers realizzate in collaborazione con Shondaland e Netflix); per chi si sente

eccentrico od eccentrica come la vostra Lady in the city, credetemi, ci vuol poco a farsi ispirare per creare un look vicino a quello della serie (basta solo un po’ di fantasia)!

In conclusione, posso dirvi una cosa sola. Questa serie, non è come le altre e – certamente – non è da considerarsi vuota e superficiale. E’ ricca di contenuti culturali e spunti di riflessione; è serena, colorata, costruita senza violenza ed è anche per questo motivo che vi consiglio vivamente di vederla e rivederla. Soprattutto, di godervela fino in fondo.