Lady in the city
Rubrica di Eliana Iuorio
Antonio Ingroia, il magistrato numero uno della lotta alla mafia; colui che portò a spalle (non da solo, naturalmente), la bara del suo grande Maestro, Paolo Borsellino, ucciso – secondo l’inchiesta che egli stesso ha seguito, da Procuratore Aggiunto di Palermo, fino a condurla in giudizio – da una “trattativa tra lo Stato, nei suoi apparati deviati, e cosa nostra”, ha deciso di buttar via la toga, per candidarsi in politica, vestendo l’arancione del Movimento nato con l’attuale sindaco di Napoli, ex magistrato, Luigi de Magistris.
Dopo aver tenuto col fiato sospeso, uomini e donne della società civile e della politica, ha finalmente sciolto la riserva ed ottenuto l’aspettativa, dal Csm.
Chi l’avrebbe detto.
“Beffeggiare il beffeggiante”.
Altro, che “toga rossa”, signor Berlusconi.
Premesso che ho sempre stimato, Ingroia, per la sua tenacia e la sua indubbia professionalità, nel tener banco ad ogni accusa, ogni attacco, contro la “sua” Procura e la “sua” inchiesta, ammetto di essere stata delusa, dal suo addio a Palermo (città cui ha avuto modo di dedicare un libro uscito con la casa editrice Melampo, poco prima della partenza per il Guatemala).
L’ho vissuta come un tradimento. Non immaginavo affatto, si trattasse del primo.
Scrivo questo editoriale, con grande amarezza e tormento; dopo aver letto Peter Gomez, su Il Fatto Quotidiano e le parole del Giudice Ferdinando Imposimato, intervistato per Lettera 43.
Spero di non essere fraintesa, nè strumentalizzata. Credo che un magistrato, come ogni cittadino, abbia il diritto di partecipare attivamente alla vita civile e politica di partito, smessa la toga.
Certo, mi riesce profondamente difficile, pensare di buttare alle ortiche sacrifici, passione, ore di lavoro, come se fosse nulla, lanciando dalla finestra parte della propria vita, per qualcosa di assolutamente aleatorio ed in ogni caso, sempre in qualche modo vicino a compromessi, ad ingranaggi complicati che limitano di fatto la propria libertà.
Con l’amaro in bocca, vorrei dire ad Ingroia: “non ora”.
Passare dall’ufficio del pubblico ministero all’incarico O.N.U. in Guatemala, poteva anche starci. Ma passare da quell’Ufficio (non da altri, lontani dall’attività giudiziaria tout court, che sarebbe diverso), all’agone politico in meno di quattro mesi, proprio no.
Quanti attacchi ingiusti e giammai veritieri, hanno dovuto subire e subiscono ancora, magistrati che – a testa alta – portano avanti il proprio incarico con dignità, onestà, passione ed impegno; accusati di essere politicizzati, giustizialisti, di fare gli interessi di questo o quello, di giocare sporco, di mettersi in luce per fare carriera politica?
Quanto abbiamo difeso lo stesso Ingroia, quando tutti gli puntarono il dito contro, allorchè al Congresso del partito dei comunisti italiani, si disse “partigiano”, per poi correggersi: “partigiano, sì, ma della Costituzione”?
No, Ingroia, no.
Passi, l’intervista video per il Corriere della Sera, che lo vedeva rispondere alle domande del giornalista, completamente ubriaco, davanti ad una bottiglia di rosso; passi, la scelta di abbandonare Palermo ed il suo collega Antonino Di Matteo, per il Guatemala.
Ma questa non può passare così, Ingroia.
Come non può passare, il riferimento del tutto fuori luogo, meschino, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sarebbero tra i motivi che lo spingono ad avvicinarsi alla competizione politica.
Vorrei dirgli di lasciarli stare. Vorrei dirgli che non c’entrano affatto, con la sua scelta.
Vorrei chiedere agli amici di quest’uomo se gli sono realmente accanto.
Ingroia, a vestirsi d’arancione (od altro colore), rischia di bruciarsi.
E portare insieme a lui, tutti gli uomini e le donne che quotidianamente svolgono il proprio lavoro, dalla parte della Giustizia e – loro sì, Ingroia – della Verità.