di Dario Garofalo
“Colmare quel vuoto culturale e di offerta di servizi per le donne vittime di violenza e di stalking, per la prevenzione del femminicidio”. Così ha dichiarato Giuseppina Tommaselli qualche giorno fa all’approvazione della ratifica alla camera sulla convenzione di Istanbul, un’affermazione che invero lascia un po’ di “vuoto” nella retorica che si sta strutturando in questo periodo intorno ad un tema così delicato ed importante per una società civile.
E.B.Taylor nel 1871 così definiva la cultura: “Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”.
Tale definizione è tutt’oggi condivisa da gran parte dell’antropologia e sociologia ufficiale: considerando il fatto che in natura il vuoto non esiste, si evince che il problema della violenza sulle donne non è dovuto alla mancanza di qualcosa, ma bensì ad un qualcosa che si è sviluppato nella nostra società in maniera distorta, se non addirittura malata.
Vogliamo ricordare l’antica matrona romana, che malgrado non godesse giuridicamente di molti diritti era comunque tenuta in gran conto, di fatto, come le loro contemporanee centro-europee o nordiche che potevano divorziare dal marito, ereditarne il patrimonio e, volendo, andare anche in guerra (le cosiddette “shieldmaiden”). Andando avanti nel tempo la condizione generale della donna in Europa andò mutando in peggio, l’austerità imperante in epoca cristiana è stata una delle cause della trasformazione di stampo medievale della figura femminile (coadiuvata dalla cultura cristiana dell’epoca che non relegava le donne in un piano inferiore solo a livello giuridico ma anche a livello teologico, la disparità veniva legittimata dal divino).
Bisogna immaginare lo sviluppo culturale come una serie di elementi dalla forma di sfoglia sottile che, nel corso del tempo, si sovrappongono fino a creare uno strato compatto e solido (che dà forma all’individuo e di conseguenza alla società). Durante questo processo è possibile che possano svilupparsi degli attriti, dei nodi che se non vengono risolti creano un dislivello che questa società si porterà sempre dietro. Condizione peraltro presente non solo in Europa ma in gran parte del mondo, dato che la collocazione del femminile in un piano inferiore ha avuto cause principalmente ambientali (nella difesa contro i pericoli esterni l’uomo è strutturalmente più efficace di una donna nella media) ed è un retaggio che ci portiamo dietro da sempre, culturalizzato e riproposto in una forma adatta ai tempi correnti.
È quindi necessario adottare questo pseudo neologismo: “femminicidio”? Il pericolo è che da un problema serio di natura sociale come quello della violenza sulle donne scaturisca un fenomeno di sessismo in senso inverso, perché parlare di femminicidio? Non ci troviamo di fronte ad una serie di omicidi (nel senso di omo-homo-umano)? Non sono le donne esseri umani? La forma assunta dalle parole descrive questo genere di reati come qualcosa di diverso, come se la società stessa tentasse di separarsene, non è forse ipotizzabile un tentativo inconscio di non vedere il problema? Considerarlo, cioè, un fenomeno del momento e non una situazione critica radicata da tempo immemore nella nostra cultura occidentale, che amiamo pensare liberale e democratica. No, l’odio verso la donna non esiste solo nel medio oriente, e non è solo un fenomeno del fondamentalismo islamico come pare andare di moda adesso. Esiste a casa nostra, nella nostra cultura da molto, e lo vediamo in quelle donne che sentono sulle loro spalle tutto il peso di una struttura familiare a cui, per antonomasia, è affidata la cura, e la ribellione al proprio “uomo” come un attentato a questo equilibrio.
Un problema così antico e radicato non si risolve con due decreti ed una campagna d’informazione, inoltre, non si risolve solo sul piano sociale, ma anche sul piano individuale. L’utilizzo di nuovi termini è l’anticamera della ghettizzazione, malgrado chi li adopera non sia in malafede, ed il pericolo è quello di vedere una questione finalmente presa sul serio relegata nell’ennesima minoranza (strategia particolarmente amata dai poteri della storia recente). Oggigiorno non c’è più l’alibi della religione o della struttura sociale per giustificare l’ondata di violenza, malgrado noi siamo anche il nostro passato, ma oggi abbiamo sullo sfondo un uomo moderno che non riesce più a controllare gli impeti emotivi, gli eccessi, l’incapacità di percepire l’altra persona e sentire come propria quella sofferenza. Da parte delle donne invece, l’insicurezza e la paura di non realizzarsi al di fuori del contesto familiare, il sottostare inconsciamente ad un’ottica tradizionale che le vuole sistemate in quel contesto malgrado tutto e se c’è da lavorare è prima su sé stessi. Stalking, violenza sessuale, psicologica, fisica, non sono solo fenomeni del nostro tempo, ma sono accentuati dalla considerazione della donna come oggetto imperante oggi nel nostro sistema sociale, figlio della logica di consumo. Emblematico l’episodio della miss che ha rifiutato di denunciare il fidanzato comportandosi esattamente come un oggetto, ma in fondo, una “miss”, che espone il suo corpo semi nudo agli sguardi del paese, non si comporta già come tale?
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